di Michele Monina e Mattia Toccaceli da Il Tasso del Miele
Può sembrare un discorso astruso, lo so, ma la musica ci si potrebbe limitare a leggerla, senza bisogno di ascoltarla. Nel senso, gli spartiti, laddove ancora ci sia qualcuno che li scriva, contengono già tutta la musica che, nel momento in cui venga eseguita, dal vivo o in studio di registrazione, si tratti di uno studio professionale o anche uno di quelli casalinghi, foss’anche un programma dentro un PC, gli spartiti, si diceva, contengono tutto quel che serve a sentire la musica, pentagramma dopo pentagramma. Un tempo, del resto, funzionava spesso così. C’erano i compositori che scrivevano la musica e, salvo rari casi, quella musica rimaneva quasi esclusivamente lì, negli spartiti, salvo nelle rare occasioni in cui avvenivano esecuzioni pubbliche, quasi sempre seguite da critica, colleghi oltre che da pubblico. Uno leggeva lo spartito e capiva di che si trattava, seppur con le complicazioni che la sperimentazione ha, nel corso dei secoli, posto di fronte ai musicisti.
Poi è arrivata l’opportunità di incidere la musica, di renderla, quindi replicabile, inizialmente per una piccola elite, e poi per la massa. Oggi siamo addirittura a un livello di tale globalizzazione, viva internet, per cui una canzone può essere ascoltata al momento della sua messa in rete in tutto il mondo, o almeno in tutta quella ampia porzione di mondo che può usufruire di internet, streaming e Youtube in testa. Da che esiste la possibilità di incidere, ovviamente, la musica dal vivo è diventata altra cosa, sempre più spesso non il momento in cui un’opera scritta veniva eseguita, ma la trasposizione dal vivo di quel che in precedenza è stato inciso. La composizione, quindi, è stata quasi sempre finalizzata all’incisione, più che all’esecuzione dal vivo. Al punto che esistono canzoni che vengono incise in una determinata maniera, con un determinato arrangiamento e con una determinata produzione, e poi dal vivo prendono altri colori, un’altra vita.
Questa nuova situazione, ormai talmente data per scontata da apparire quasi presente da sempre, ha prodotto derive radicali, con artisti che si rifiutano di incidere la propria musica, e operano praticamente solo dal vivo, non necessariamente per ragioni legate all’improvvisazione, e quindi all’impossibilità di ripetere anche per solo due volte di fila la medesima sequenza di note, ritmi e suoni, ma proprio per una ragione filosofica, di non volontà di vedere la musica fermarsi in un formato che ha comunque delle gabbie, e con artisti che si rifiutano, per motivi ancora più vari, di esibirsi dal vivo, ritenendo che quella prodotta in studio di registrazione sia la sola musica possibile. Magari anche solo per non avere la rottura di coglioni di doversi interfacciare con le altre persone, si pensi a Mina.
Ovviamente, trattandosi di arte, hanno ragione tutti, dal momento che ogni scelta asseconda l’attitudine di chi l’ha perpetrata.
Chiaramente un peso fondamentale ha cominciato a averlo da una parte la difficoltà di vendere la musica incisa, perché prima la pirateria e poi lo streaming, che della pirateria sembra essere versione legalizzata, hanno sostanzialmente indotto il pubblico a pensare che pagare per ascoltare musica incisa fosse una sorta di furto, dall’altra la conseguente tendenza universalmente ritenuta come un dato di fatto che sia nel live la sola forma di sostentamento possibile per gli artisti oggi. Come dire, non vendi più dischi, lasciatemi usare un concetto, antico, ma almeno guadagni dai concerti.
Questo ha a sua volta generato paradossi, come quando Beck, artista pop ma anche piuttosto sperimentale, nel 2012 ha dato alle stampe una sua opera, Song Reader, edita dalla casa editrice di Dave Eggers, McSweeney’s. La caratteristica di questa opera, sempre in ambito pop, è che Beck non ha dato alle stampe un cd, come ancora era consuetudine allora, in epoca pre-Sporify, ma un libro contenente gli spartiti di venti canzoni nuove. Venti canzoni che poi sarebbero state coverizzate, in assenza per altro degli originali, da altrettanti artisti di un certo successo, da Tweedy dei Wilco, a Jack White, passando per Jarvis Cocker o gli Sparks, operazione che, a mio avviso, ha peraltro tolto ogni poesia alla geniale intuizione iniziale.
Quale? Quella che la musica, se si continuerà a bloccare la filiera un attimo prima che a attingere al pozzo siano anche gli artisti, come sta capitando con lo streaming, finirà per tornare a essere a appannaggio di pochi, i ricchi che potranno permettersi o di chiamare “a corte”, lasciatemi usare un traslato che fa chiaro riferimento al passato, i musicisti e i compositori, come un tempo l’imperatore faceva con Mozart, o quelli che, avendo studiato musica, potranno eseguirla in prima persona, sempre che sia musica eseguibile da un singolo elemento, o diventeranno oggetto di traduzioni popolari, come in effetti avveniva anche in passato, sia come sia, perdendo la medesima connotazione che ha oggi, con una routine fatta di composizione, incisione, pubblicazione, esecuzione dal vivo che, evidentemente, sembra mostrar le corde.
Tutto questo per dire cosa?
Che quando sentite qualcuno che dica che se non hai visto un artista dal vivo non puoi giudicarlo. O che se un artista oggi vuole campare di musica deve per forza farlo attraverso i concerti. Beh, in questi casi state leggendo o sentendo una cazzata piuttosto plateale, che non tiene conto di quel che la musica in effetti è diventata nei secoli.
Ciò nonostante, va detto, la musica dal vivo è ancora oggi una cartina di tornasole della reale capacità di artisti, specie in ambito rock o pop-rock, con tutto quel che questi generi così larghi possano voler dire, sorta di semplicissimo e anche banale metodo anti-troll, pratico per identificare chi c’è e chi ci fa. Per questo, anche per questo, ho deciso di accettare l’invito di Massimo Bonelli, organizzatore con la sua iCompany del Concertone del Primo Maggio. Perché sul palco che troneggia in Piazza San Giovanni, a Roma, si alterneranno buona parte di quei nomi che oggi animano le due scene che più di ogni altro sta spopolando tra i più giovani, intendendo con questa generica definizione tutti coloro che si trovino tra pre-adolescenza e post-adolescenza, in una forchetta che passa tra i dieci e i trent’anni, gente sulla carta lontanissima, ma in realtà sicuramente giovani.
Ci sono, infatti, gli alfieri delle nuovo cantautorato indie, da Gazzelle ai Canova, passando per Frah Quintale, Galeffi, Wrongonyou, Mirkoeilcane, con alcuni rappresentanti dell’underground più maturo, come dire già testati e provati come The Zen Circus, Lo Stato Sociale, Maria Antonietta, i Ministri, Calibro 35, e ci sono alfieri del rap come Gemitaiz e Nitro, affiancati da Achille Lauro con Boss Domes e Ultimo, ma anche dalla rockstar della trap Sfera Ebbasta. Poi, siamo sempre in Rai, ci saranno anche nomi più smaccatamente mainstream, da Max Gazzè con l’Orchestra Filarmonica delle Marche a Carmen Consoli, passando per le Vibrazioni, la Michielin, che però è in una straniante quota indie, e Gianna Nannini, inclassificabili Dardust, qui in compagnia di Joan Thiele, e John De Leo, ex Quintorigo. Insomma, un cast interessante, anche perché per una sua buona componente è fatta di nomi che si leggono ormai sempre più spesso nelle classifiche di Spotify e anche in quelle della Fimi, per ragioni che a me sembrano incomprensibili.
Ecco, proprio per cercare di dare un senso a questi artisti, per aiutarmi, e quindi aiutarvi a decodificarne la cifra, a comprenderli, sarò al Concertone. Perché avendoli ascoltati nella loro versione di studio, la loro musica incisa, mi è sfuggito più che qualcosa. Per mie mancanze, ovviamente, magari anche per una mera faccenda di anagrafe, troppo vecchio io o troppo giovani loro.
Nei fatti sarò lì, a Roma, e per una volta farò finta che la lunga premessa che avete letto non sia stato io a scriverla. Che la musica dal vivo abbia davvero un valore assoluto. Di più, che sia da sola capace di dare un senso alla musica, con buona pace di chi oggi vuole ascoltarsi John Coltrane o Jimi Hendrix, o magari anche solo Robert Wyatt.
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