Non succede quasi mai, se ci pensate bene. Sì, se vi fermate un momento a ragionarci su, vi accorgerete che non succede quasi mai di poter assistere al momento in cui un artista da alla luce la sua opera d’arte.
Ci ha scritto su un libro assai bello Geoff Dyer, scrittore inglese, partendo dal fatto che è talmente raro che ciò succeda, perché le foto che immortalano gli artisti, in genere sono posate, anche nel momento in cui pretendono di immortalarli mentre stanno creando. Il libro si intitolava Natura morta con custodia di sax, e si occupava di un genere musical, il jazz, che in effetti, per sua natura, tende a esporre gli artisti nel momento della creazione, essendo un genere, appunto, che parte da canoni ma si fonda sull’improvvisazione.



Così non è nel resto della musica leggera, specie nel pop. È vero, la musica dal vivo è, in qualche modo, arte esibita, ma si tratta di arte che si replica, perché il momento vero della creazione, quello in cui le note prendono corpo, in cui le parole si mettono una dietro l’altra, avviene altrove, lontano dagli occhi e dagli orecchi. Preso per buono questo assunto, e non abbiamo alternativa, possiamo però gioire, e gioire di cuore quando assistiamo non al concepimento, ma quantomeno al momento in cui un’opera importante e assai bella viene alla luce. Non presenti in camera da letto, parafrasando, ma in sala parto.
È successo ieri, a me e agli altri presenti al Momo Restaurant di Milano, nel momento in cui Ilaria Porceddu ha presentato agli addetti ai lavori e al pubblico il suo nuovo album, Di questo parlo io.
Un’opera importante e assai bella, ribadisco e sottoscrivo. Importante perché, con le sue nove tracce, firmate dalla stessa Ilaria in buona compagnia di un team di lavoro di livello, da Alessandro Carta, che firma le liriche del brano d’apertura e di chiusura, in lingua sarda, Sas Arvures e Lu Cor’aggiu, a Francesco Gazzè, per la cui Linea Due il lavoro esce, a Francesco De Benedictis, Alessandro Ciuffetti, Antonio Toni e Attilio Fontana, trait-d’union col passato, con queste nuove nove canzoni Ilaria Porceddu dimostra come sia possibile, oggi, fare bella musica d’autore senza dover necessariamente inseguire le fatue mode del momento ma al tempo stesso producendo canzoni che potrebbero serenamente passare in radio o in televisione.
Importante, quindi, perché ci riconsegna un’artista che ha fatto il suo esordio ormai una vita fa nella prima edizione di X Factor ma che, a dispetto di quel che il talent ci hanno poi mostrato nel corso del tempo, impoverendo il cast edizione dopo edizione, e conseguentemente andando a rincorrere personaggi più che artisti, facce più che voci, profili più che anime, a dispetto di quanto i talent ci hanno mostrato è stata capace di riprendere in mano la propria poetica e, affidandosi a chi ha a cuore la musica più che un trend topic del momento, oggi torna sulle scene con un lavoro di grande livello.



Sì, perché Di questo parlo io non è solo un lavoro importante, per i motivi qui detti, ma anche assai bello. Ed è bello perché Ilaria Porceddu ha una voce di quelle che ti prendono il cuore e te lo fanno a brandelli, come in certe puntate particolarmente azzeccate di Grey’s Anatomy, e si sappia che chi scrive adora Grey’s Anatomy. E assai bello perché la scrittura è di qualità, leggera ma molto profonda, classica, nei suoni e nella composizione, ma contemporanea, per dirla con parole che si usano oggi, globalizzata e local al tempo stesso, con questo ricorso alla lingua sarda in due tracce. Di questo parlo io è un album assai bello perché la voce di Ilaria Porceddu, probabilmente la più bella tra quelle passate da quel tritatutto che è il mondo dei talent, è capace di portarti in un mondo, il suo, e di fartene partecipe, parlando di corpi, di anime, di storie e di sentimenti, di donne, molto di donne, ma più in generale del mondo, di questo nostro mondo.
Ecco, essere presenti nel momento in cui Di questo parlo io non è come sarebbe stato essere presenti nel momento in cui queste canzoni sono diventate tali, ma è già qualcosa, è già molto. Ci si perde spesso, anche a ragione, a stigmatizzare il brutto. Ogni tanto, è questo il caso, è bene indicare il bello lì dove c’è.



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