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venerdì, Luglio 26, 2024

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EUGENIO FINARDI E I SUOI “40 ANNI DI MUSICA DI RIBELLE” – INTERVISTA

di Athos Enrile

E’ appena stato rilasciato “40 ANNI DI MUSICA DI RIBELLE” (dicui abbiamo già parlato in un precedente articolo), di Eugenio Finardi, cofanetto che raccoglie le versioni rimasterizzate dei primi 5 album in doppio formato, CD e vinile ma, ovviamente, in ballo c’è molto di più, e l’evoluzione tecnologica evidenziata appare come un mezzo per proporre qualcosa di estremamente serio, almeno per chi sa abbinare il piacere della fruizione musicale ai cambiamenti sociali e alla memoria storica.

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La promozione live si aprirà con il concerto del prossimo 4 novembre al Teatro Dal Verme di Milano, uno spettacolo che, partendo dal titolo – “MUSICA RIBELLE-LA REUNION” -, si adegua alla voglia di riproporre l’anima di un movimento musicale significativo che, analizzato attraverso l’ascolto di brani seminali e originali, potrà sorprendere anche chi, per motivi anagrafici, non era presente.

Ho chiacchierato al telefono con Eugenio Finardi, per avere informazioni oggettive, e le mie domande relative al nuovo lavoro hanno seguito l’effetto domino che si realizza sempre in queste occasioni, e mi pare interessante proporre l’intervista integrale.

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Quattro chiacchiere con Eugenio…

 Analizzando il contenuto del tuo progetto ho realizzato che i cinque album che lo compongono fanno già parte del mio archivio, conservati come elementi preziosi, per la musica contenuta e per i ricordi che mi suscitano: che cosa troverò in più rispetto a ciò che già posseggo? Qual è il cuore del cofanetto?

Il cuore di questo cofanetto è innanzitutto tecnico, e si basa sulla riscoperta e successiva rimasterizzazione di tutto il materiale originale; come tu sai, negli anni ‘70 i dischi venivano fatti con una tecnologia più povera, ed esisteva un passaggio delicato chiamato lucidatura: subito dopo la galvanica veniva messa una pasta abrasiva sulla “madre”, depositata sulla lacca per elettrolisi, e da qui scaturiva il negativo da cui nascevano le forme per la stampa. Quando veniva tirato fuori dalla galvanica veniva lucidato con una pasta abrasiva, due o tre giri, e a ogni passaggio si perdevano delle frequenze, soprattutto quelle alte. Quando ho ritrovato i master originali di questi dischi (tra l’altro sono stato uno di quelli che se n’è accorto, perché la prova stampa non era mai uguale all’acetato), abbiamo eliminato questo processo; nei nastri originali ho trovato delle frequenze sonore molto più articolate di quanto non lo fossero nei dischi rilasciati all’epoca, e lo stesso vale per i CD, che erano stati digitalizzati con i primi convertitori negli anni ‘80, che non avevano la stessa fedeltà di quelli a 24 bit, e quindi mi sembrava giusto ricercare e riproporre il suono vintage che era rimasto intrappolato nei nastri dell’epoca.

Però credo ci sia molto di più.. tu mi hai appena descritto un risvolto meramente tecnico, ma immagino che nel progetto ci si possano ritrovare il cuore e i pensieri di  una vita…

Certamente, e passando per l’aspetto tecnico è venuta la voglia di realizzare qualcosa di più complesso, una lavoro di restauro che potesse traghettare verso la descrizione di un’era lontana, il racconto di una sezione importante della storia italiana. Inoltre, nel cofanetto dei CD c’è un documento importante, il DVD che offre la possibilità di rimixare tracce singole, come erano sui 16 piste di allora – tali e quali -, quindi la possibilità di “manipolare”, ad esempio, “Extraterreste”, “Musica Ribelle”, o “Voglio”, o di riascoltare le singole piste, come una macchina del tempo che ci riporta a periodi antichi.

All’interno del cofanetto c’è un album mitico, “Sugo”: cito testualmente le parole di Lucio Fabbri, che mi disse tre anni fa:  <<album che teme poca concorrenza, sia da un punto di vista tecnico che da quello della qualità musicale>>… è anche per te un disco del cuore?

Sì, assolutamente; ci sono alcuni dischi che segnano un prima e un dopo. Ti faccio un esempio… “La voce del padrone” di Battiato, o “Rimmel” di De Gregori: “Sugo” è sicuramente uno di questi, perché nel panorama del rock italiano non si era mai sentito nulla del genere; imperava da un lato la melodia ed esisteva al contempo il prog, molto lezioso… se vai a vedere chi vinceva Sanremo in quegli anni ti rendi conto di che tipo di rivoluzione potesse rappresentare “Sugo”.

Come ha reagito il pubblico quest’estate, dal momento che hai fatto un tour incentrato proprio su “Sugo”?

Reazione fantastica, basta dire che il concerto del prossimo 4 novembre, al Teatro dal Verme, è andato tutto esaurito, con gli amici che mi chiamano per avere dei posti, e io che devo metterli in attesa, per vedere se qualche giornalista darà forfait!

Nelle precedenti volte in cui ci siamo incontrati, e abbiamo avuto occasione di scambiarci delle idee, mi era sembrato  di capire che in un certo periodo della tua vita sia stato per te faticoso riproporre “Musica Ribelle”: ho interpretato male il tuo pensiero?

No, no, come  accade a tutti i musicisti – Baglioni con “Piccolo grande amore” o  Fossati con “La mia banda suona il Rock” – anche io ho avuto un periodo di rifiuto di “Musica Ribelle”, perché quando un pezzo lo suoni sino allo sfinimento finisce con perdere il suo senso, e a me non è mai piaciuto cantare così, senza “sentire” le cose. Ho avuto un periodo, nel primo decennio degli anni 2000, in cui quel brano mi aveva stancato, anche perché con l’andare del tempo si era anche appiattito e modificato musicalmente, e la continua ripetizione porta ad affievolire la fiammella, che alla fine può anche spegnersi. Ma il ritrovamento degli archivi di cui ti ho parlato, la possibilità di rivivere i primi dischi, di tornare in quella sala di incisione, di riprovare le sensazioni che scaturivano dall’antico ascolto in cuffia mentre realizzavamo i brani, mi ha fatto sentire come se avessi riagganciato il primo amore, scoprendo che non era per niente invecchiato… una cosa meravigliosa, un’emozione fortissima, tant’è che regalo quelle tracce, così come sono, a chi compra il cofanetto dei CD, perché possano fare la scoperta di un gruppo di ragazzini che, negli anni ’70, suonavano con quell’energia e con quella voglia che riemerge dall’ascolto.

Mi pare di capire che all’interno di questo grande lavoro emerga un’amplificazione di tutto ciò che eri: esiste qualcosa che, all’esame del tempo, non ti soddisfa del Finardi di allora?

Mah, un po’ la voce, ero sempre spinto a cantare su frequenze alte. Avrei forse già allora dovuto concentrarmi sulle frequenze più basse, e questo è il fatto tecnico più rilevante. In questi ultimi anni sono uscito in un certo senso dal Finardi conosciuto, perché dal 2000 ho smesso di fare Finardi e ho cercato altre strade, alternative ma ugualmente soddisfacenti: il Fado portoghese, la musica spirituale, il mio disco di blues – sogno di una vita -, e anche la musica classica contemporanea, usando un registro di voce più basso, e devo dire che sono molto contento di questi risultati. Non lo sono invece di certa produzione degli anni ’80, quando c’era chi addirittura mi faceva accelerare la voce, un po’ da Paperino, e quando sento “Dolce Italia”  mi cascano le… c’era chi era convinto che la voce dovesse essere acuta…

Hai sempre dato un rilievo importantissimo agli aspetti sociali:  avresti mai pensato che le cose potessero ancora peggiorare rispetto al tuo impegno iniziale? Se ci guardiamo attorno non ci sono stati grandi miglioramenti!

No, anzi, siamo tornati indietro, e non pensavo potesse accadere. Credo che la mia generazione, quella che ha conosciuto gli anni ‘60 e ‘70, cioè quello che noi chiamiamo il sessantotto, in realtà  abbia vissuto un ventennio iniziato con Martin Luther King e finito con la mannaia dell’elezione di Reagan e della Thatcher, e da allora c’è stato un trentacinquennio reazionario pazzesco che ci ha portato a questo nuovo medioevo, che stiamo vivendo con decapitazioni, con schiavitù, con un’insicurezza diffusa, guerre di religione, fame, esodi biblici, e una visione orrenda rispetto a quello che sognavamo allora; tra l’altro gli apocalittici scenari futuri oggi hanno una scadenza: poco fa stavo guardando un TG e si parlava dell’ennesimo allarme ecologico, e spiegavano che un terzo degli animali e delle piante del pianeta sono ormai a rischio di estinzione… siamo ormai arrivati al punto di non ritorno!

Vorrei tornare un attimo su un altro discorso più musicale: ho visto nelle tue presentazioni del progetto che esistono dei ringraziamenti particolari a persone che purtroppo non sono più tra noi… Stratos, Capiozzo, Sassi: che cosa è stata la Cramps per te, e in generale per il movimento musicale italiano?

La Cramps è stato un piccolo miracolo, la fortissima personalità di Gianni Sassi era riuscita a creare qualcosa che fino ad allora nessuno aveva potuto fare in Italia. Il mio primo contratto, come sai, era stato con la Numero Uno, dove c’era Lucio Battisti, Mara Maionchi, Claudio Fabi, Mario Lavezzi, Mogol… era un primo tentativo di fare musica indipendente italiana, ma in Italia non ci si poteva muovere senza una visione politica, in quel momento storico, e Gianni Sassi riuscì a focalizzare tutto questo, soprattutto perché non si occupava di musica e quindi lasciava a noi completa libertà artistica, ma era un leader, così forte che tutti gli altri “sotto di lui” erano considerati alla pari, e creavano quindi un collettivo. Quando penso a quelle incisioni… non c’era un capo, un produttore, la figura carismatica, l’arrangiatore, eravamo tutti più o meno pari; certo, io scrivevo le mie canzoni, i miei testi, davo suggerimenti per gli arrangiamenti, ma quando toccava a Camerini fare le sue, era lui stesso che forniva gli accordi e le indicazioni. Eravamo una squadra con un unico grande cuore. Lo scrive bene Bollani in un suo intervento che apre il libro che accompagna il cofanetto (perchè abbiamo trovato anche l’archivio fotografico della Cramps con contributi inediti, scritti di personaggi dell’epoca, testimoni o amici, come Bollani, Boccadoro, Manuel Agnelli, Cristiano De Andrè…), e appunto si domanda come potessero lavorare, tutti insieme, personaggi di simile caratura, e che tipo di impostazione organizzativa esistesse. Beh, in realtà eravamo un’unica anima, e la cosa si sta ripetendo, perchè nel corso delle prove del concerto del 4 di novembre ci siamo accorti che è bastato ritrovarsi per fare immediatamente gruppo, senza nessun capo o comando, esattamente come un tempo, quando la parola “comando” era collegata all’accensione o allo spegnimento di un interruttore.

Ho tre curiosità che riguardano l’attualità. Una relativa ad un evento di circa un mese fa, quando tu eri due file sotto di me al concerto degli Who. Sei rimasto soddisfatto?

Sì, molto, uno spettacolo bellissimo. Ma mi ha anche fatto capire qualcosa, e ha in qualche modo influenzato il concerto del 4 novembre; ti spiego: bellissimi i contenuti visivi, le luci così rivolte verso il pubblico, ma a me interessava vedere Pete Townshend, e ho realizzato guardandomi attorno che nei concerti ormai la musica non sia l’elemento più importante – gli Who rappresentano ancora l’eccezione -; pensa ad esempio al concerto dei Muse, che mi è spiaciuto non poter vedere, non tanto per la musica, marginale, ma per lo spettacolo, con i droni in volo, la scena, la parte visual, l’esperienza psichedelica. In quello degli Who la musica è ancora presente, nonostante loro festeggino i 50 anni di attività, e mi sono reso conto quindi che quella generazione, quel periodo storico, quel ventennio, è stato seminale, e ancora non ne siamo usciti. Mi viene in mente una canzone come “Ma dove vai bellezza in bicicletta”, che io credevo fosse degli anni ‘30, e in realtà è degli anni ‘50, pochi anni prima di “4 marzo 1943” di Dalla, eppure in mezzo c’è l’oceano!

Volevo sfruttare la tua “americanità”, la tua doppia cultura per chiederti due cose. La prima riguarda le prossime elezioni negli States, una scelta tra Trump e la Clinton, che spesso suona come la ricerca del male minore…

Beh, io ogni notte seguo le vicende americane attraverso la CNN, tra l’altro in questo momento mia figlia è in Florida, in una famiglia pro Trump, e mi scrive – con ragione – meravigliata, lei che ha solo 17 anni, chiedendosi come faccia un tale personaggio a creare entusiasmo, e come si possa votare una persona così pericolosa. Però devo onestamente dire che la Clinton è una delle persone meno entusiasmanti che io abbia mai visto, la classica preside di istituto magistrale, con la sua lezioncina precostituita… ma io avevo riposto molte speranze anche in Barack Obama, e mi sono accorto, purtroppo, che anche il presidente degli Stati Uniti non conta niente, perché chi ha il potere è il presidente della Ford o della DuPont, e che Marchionne conta più di Renzi, non c’è niente da fare, questo mondo liberista appartiene alle multinazionali, e mai come oggi la “musica ribelle ha un senso”. Trump è il candidato assimilabile concettualmente alla Brexit, il sintomo di una ribellione non guidata, non ragionata e ignorante… un sistema, un pensiero unico dominato dalla finanza, in cui pochissimi si arricchiscono oscenamente e tutti gli altri vivono nella costante ansia di perdere ciò che hanno, e nella certezza che i loro figli non riusciranno a raggiungere la loro qualità di vita: tutto ciò spaventa e crea questi fenomeni di populismo becero, perchè la paura genera mostri.

A proposito di grandi manifestazioni e di grandi eventi internazionali, che idea ti sei fatto di quanto accaduto attorno a Dylan e al suo discusso Nobel per la Letteratura?

Che i poeti e i letterati si rodono dall’invidia! E’ un premio assolutamente meritato. Il discorso è abbastanza articolato. Innanzitutto il premio Nobel per la Letteratura viene dato, anche, per motivi politici, e se è stato premiato Dylan è proprio perché Trump è uno dei candidati alla Casa Bianca; successe anche in Italia ai tempi di Berlusconi, quando il designato – come contrasto – fu Dario Fo, riconoscimento giusto per altro, ma tanti lo avrebbero meritato; quello a Dylan è appunto un premio di monito, un invito a ricordare.

Dylan, al di là di ciò che ha scritto, era accanto a Martin Luther King il giorno del famoso “I have a dream”, è ciò non va dimenticato. Dylan è anche stato un fenomeno epocale, uno di quei personaggi che hanno cambiato veramente la storia, più di Warhol, più di Kubrick, più di tantissimi altri artisti e scrittori; forse l’ultimo che ha modificato cosi tanto la storia è stato Hemingway, quindi Dylan merita assolutamente il premio anche per il suo significato, per la sua vita vissuta, e anche perché sta ignorando il riconoscimento, ed il suo disinteresse verso il Nobel è un dato di estrema coerenza, il resistere all’ultima grande lusinga, l’ultima rilevante tentazione; Dylan non è mai entrato in questa sfera, ha sempre provocato, e il fatto che lui appaia indifferente alla pressione mediatica lo trovo prima di tutto divertentissimo e poi estremamente coerente e ammirevole. E’ l’ultimo sberleffo al mondo borghese, e alla fine della fiera e ci vuole un grande coraggio, e anche una grande spocchia.

C’è un ultimo ragionamento però: tolto il ruolo storico e sociale, tolto il personaggio, tolto  tutto ciò che c’è intorno, prendendo solo i testi delle canzoni, forse… se lo sarebbe meritato di più Leonard Cohen.

Per concludere ti chiedo ancora una cosa a proposito dello spettacolo del 4 novembre, incuriosito dai vari comunicati in cui è annunciata una sorta di reunion: chi sono questi  tuoi amici antichi o collaboratori che saranno sul palco?

Sono alcuni dei musicisti che suonavano con me nei dischi originali; sono riuscito a mettere insieme quasi tutta la band, ne mancheranno due o tre. Ci sarà Walter Calloni, Lucio Fabbri, Lucio Bardi, Claudio Pascoli, Patrizio Fariselli, Alex Tavolazzi, Mauro Spina, Mark Harrys, Vittorio Cosma – che non è di quell’epoca ma ha suonato con me negli anni ‘80 e ‘90 ed è stato quindi mio grande collaboratore -; purtroppo Stefano Cerri non è più tra noi, e non ci potrà essere un altro grande bassista, Hugh Bullen, perché è in tournèe con il suo gruppo gospel in Inghilterra. E’ molto difficile sostituire due personaggi del genere, e l’unico che forse lo può fare degnamente è Faso, di Elio e le Storie Tese, che ha la tecnica giusta e che considera Stefano Cerri suo modello, ed è questo un esempio di una generazione che, vedendo noi o quei musicisti, ha capito che si poteva fare un  certo tipo di musica anche in Italia. E poi ci sarà anche Elio, che suonerà il flauto in una canzone in sostituzione di Camerini, assente perchè in viaggio; ultima ma non meno importante la mia band attuale, con citazione per particolare Giovanni Maggiore, il mio chitarrista, che si è imparato a memoria le parti di Camerini… mica poca roba!

Nessun dubbio… “ora più che mai c’è bisogno di musica ribelle”!

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