C’è sempre qualche immortale che lui scova, e poi lo mette alla ricerca di un odore da mantenere sotto il naso; di una ragionevole traccia domestica che lo faccia riposare, o perfino di un qualche orologiaio capace di raddrizzargli il tempo.
Sembra che lui sia capace di sistemare fili di fosforo tra le stelle, flauti e confetti di mandorla nei pensieri. Sembra lui sia un mago olimpico.
Io non credo che Sergio faccia caso alla vita, perché lo sa che la realtà è nulla. Lui sa che stare in questo mondo è dover mantenere la testa sott’acqua.
Sergio ha il cuore nell’anteriorità dell’innocenza; sembra non abbia una misura umana. Con le sue dita chiude in una buccia l’esistenza di chiunque: perché nulla debba accadere al di fuori della quiete.
Sergio apre i suoi ventagli per facilitare la nostra respirazione; ci ossigena se vogliamo scappare via, con tutte le nostre angosce appese alla cintola.
E allora usciamo dalla nostra caverna di granito, sperando che la sua musica non finisca mai. E annaspiamo come capita quando si ha troppa luce, quando si hanno nelle orecchie tanti suoni sconosciuti. E allora siamo esche, uomini incapaci di resistergli.
Sergio chiede di essere perdonato se non è rimasto nascosto, se ha riempito di tesori la sua musica, se è stato lui il gattone nei nostri grovigli.
Sergio ci ha accorciati, screpolati come argille; gli abbiamo anche permesso di perquisirci affinché fosse sicuro noi fossimo per davvero impauriti.
Prima ci ha tenuti come delle vecchie foto, poi ci ha riverniciati.
E allora abbiamo creduto di essere diventati uomini nuovi, di essere diventati i suoi fratelli diletti. E abbiamo iniziato a credere che eravamo arrivati “alla fine di tutti i guai”.
Sergio ha reso umido il potere terreno, senza nessuna fedeltà lo ha scassato.
Quando ha avuto bisogno di sogni ha chiamato il cielo, e ci ha portati tutti quanti in salvo, così lontani che avremmo potuto anche mangiarci la luna.
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