di Michele Monina
Siccome è facile incontrarsi anche in una grande città.
Non credo ci sia bisogno di introdurre questi versi.
Se per qualcuno di voi c’è, questa necessità, lasci all’istante questa pagina, corra a cospargersi il capo di cenere, si ascolti tutta la discografia di Battisti, a partire da quella che lo vedeva al fianco di Mogol fino a quello che vedeva nelle vesti del paroliere Pasquale Panella, intermezzo compreso, e poi, ma solo poi, quando ha riconosciuto quei versi, ritorni qui, indegno.
Siccome è facile incontrarsi anche in una grande città, si diceva. Bellissimi versi. Buttali lì un po’ per fare scena, però. Perché le grandi città sono, appunto, grandi, e quasi mai capita di incontrare per caso le persone che si vorrebbero incontrare. Figuriamoci quelle a cui non si pensa, più o meno colpevolmente.
Tutto questo per dire che ieri, mentre stavo andando a comprare dei kebab per cena, ho fatto un incontro inaspettato. Non per mie mancanze, colpevoli. Né per mancanza della persona che ho incontrato. Semplicemente perché nelle grandi città non ci si incontra quasi mai per caso. E non è facile organizzarsi. Ero lì, che attraversavo la strada mettendo a repentaglio la mia vita, quando una ragazza, da dentro una macchina color granata, mi ha sorriso.
Succede, che la gente mi sorrida. Da che scrivo in rete anche piuttosto spesso. Succede anche che mi mandi a cagare, ma questa è altra faccenda.
Ci sono io che sto lì, sulla linea di mezzeria, indeciso se buttarmi tra una macchina e l’altra e tentare di arrivare in salvo dall’altra parte della strada, quando questa ragazza mi sorride. Con la bocca, mi sorride, e con gli occhi. Dal che capisco che, probabilmente, oltre a aver lei riconosciuto me, in questo caso, anche io avrei dovuto riconoscere le ragazza della macchina granata, quella con il sorriso in bocca e negli occhi.
La ragazza, nel mentre, si è messa a salutarmi con la mano, quindi sì, la conosco, è ufficiale, ma un po’ il riflesso dei lampioni sul vetro della macchina, un po’ l’età che avanza, la mia, non la vedo bene. Vedo solo il sorriso, e gli occhi. Allora mi avvicino, tanto nel mentre, qualche decina di metri dopo, è arrivato il rosso. Lei tira giù il finestrino e mi saluta, e stavolta la vedo, e ovviamente la riconosco.
È Ilaria Pastore, una delle più brave cantautrici che mi sia capitato di ascoltare in tanti anni che seguo la scena musicale italiana e non. L’ho conosciuta ai tempi di Anatomia femminile, lei da poco uscita col suo album d’esordio, Nel mio disordine. Un album talmente intenso che, una volta che lo avevo ascoltato, mi aveva spinto a chiedere a lei e altre sue colleghe di dare vita con me a quel progetto. Un grande disco, una grande penna, che molto diceva e molto prometteva.
Poi, proprio per quel progetto, Anatomia femminile, ci siamo un po’ allontanati, perché l’insuccesso della prima e della seconda vita di quel lavoro, dovuto ai microscopici discografici che l’hanno seguito, ha reso i rapporti un po’ difficili da gestire, tutti insoddisfatti, quindi meno propensi all’apertura.
Ma la stima è sempre stata lì, in stand-by. Al punto che, quando ho visto, mesi fa, che Ilaria si stava per mettere in viaggio, in giro per il mondo, per lavorare al suo prossimo album, destinato a arrivare a circa sei anni dall’esordio, ne sono stato molto felice. Era ora, mi sono detto. Ho seguito quel viaggio. Ho seguito, poi, le registrazioni del suo nuovo lavoro, avvenuto presso l’Indiehub studio di Andrea Dolcino.
Poi, si sa, la vita ci disperde. Ma lei è lì, dentro questa macchina, che mi salauta e mi sorride. “Pensa te che emozione” mi dice, “ci incontriamo proprio adesso che sto ascoltando per la prima volta il mio album masterizzato. L’ho ritirato proprio adesso dallo studio”. Il lavoro è finito, quindi. Ma non ho tempo per fare domande, perché nel frattempo è scattato il verde, le auto cominciano a sfrecciare, e quelle dietro alla sua auto a andare di clackson. “Te lo devo far sentire”, dice, mentre io dico “Me lo devi far sentire”. Sì, lo devo sentire.
E lo dovete sentire anche voi. Segnatevi questo nome, Ilaria Pastore. E ricordatevi di lei, quando leggerete di nuovo di lei in questa rubrica, quando vedrete il suo album in un qualche sparuto negozio di dischi, quando vi capiterà un suo video online. Ilaria Pastore.
Ci salutiamo, e io arrivo sano e salvo dall’altra parte della strada. Chi mi vede, perché c’è sempre qualcuno che ti guarda, quando non te ne accorgi, mi vede che sorrido. Non mi ci vedete spesso, in rete, sorridente, ma provate a immaginarmi così, che sorrido, con la bocca e con gli occhi.
Per sorridere con le orecchie tocca aspettare ancora un po’, ma il 2016 ci porterà il secondo album di Ilaria Pastore, e mi sembra una gran bella cosa.
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