Quando John Lennon disse incautamente: “Siamo più famosi di Gesù” gruppi di giovani americani bruciarono in piazza i dischi dei Beatles. Ci fu una rivolta popolare, mitigata solo dalle scuse di Lennon e dal successo planetario dei Fab Four.
Jim Morrison sul palco ne combinò di tutti i colori e fu arrestato due volte per atti osceni e vilipendio. A Woodstock, Pete Townshend colpì con la sua chitarra Abbie Hoffman che era salito sul palco per protestare contro l’arresto di John Sinclair urlandogli: “Prova a rifarlo che ti ammazzo”.
Sinead O’ Connor strappò una foto del Papa durante un live televisivo. GG Allin defecava sul palco e poi gettava la merda addosso al pubblico.
Le intemperanze degli artisti sul palco, negli hotel e nelle conferenze stampa sono infinite. La lista è lunga anche in Italia. Carmelo Bene, seppur con il suo stile unico, maltrattava i musicisti chiamandoli orchestrali con disprezzo per non parlare delle offese rivolte agli spettatori. La fama di Vittorio Sgarbi iniziò al Costanzo Show sul palco del Teatro Parioli, quando augurò la morte a un critico d’arte. Leopoldo Mastelloni per una bestemmia in diretta tv fu esonerato dalla televisione per decenni e finì nel dimenticatoio. Maurizio Arceri dei Krisma si tagliò un dito durante un concerto e finì sulla prima pagina del Corriere bollato come un mostro, nonostante il suo gesto fosse solo un colpo di teatro a omaggio della cultura punk.
Il recente caso di Morgan a Selinunte ha rinfrescato il tema, e me ne guardo bene dal commentarlo perché se ne è parlato sui social più del riscaldamento globale.
Insomma su questo rito si potrebbe scrivere un libro di oltre 600 pagine. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, cioè le intemperanze e le violenze del pubblico nei confronti degli artisti.
Francesco De Gregori subì un autentico processo sul palco al Palalido di Milano perché il suo cachet, che era l’equivalente delle 500 euro di oggi, fu considerato un furto. Fabrizio De Andrè fu contestato da un gruppo di autonomi al PalaEur di Roma durante il tour con la PFM e il concerto fu interrotto per quasi mezz’ora. A Carlos Santana andò peggio dato che gli fu tirata una molotov sul palco. A Lou Reed furono lanciate bottiglie e sputi. A Ivan Cattaneo, al Parco Lambro, quando si presentò come compagno del F.U.O.R.I (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) il coro dal prato intonò “Frocio”. Nell’ultimo Festival di Re Nudo, il pubblico occupò il palco per un giorno e mezzo mentre i polli surgelati venivano presi a calci come palloni. Accadde di tutto e di peggio, tra botte da orbi e lacrimogeni. Durante i concerti punk devastare il palco con lancio di oggetti e bottiglie era persino abituale. Al Teatro Cristallo di Milano qualche demente riuscì persino a tirare una bottiglia di vetro rotta, sotto la gonna di Courtney Love.
Sono stato testimone di queste violenze diverse volte e non ne ho mai capito il senso, se non come manifestazione di frustrazione, più che di dissenso. Oggi con lo strapotere incontrollato dei social, la violenza è stata sdoganata fino a diventare normale. C’è gente pagata, chiamata influencer, a cui è permesso sputtanare chiunque anche con epiteti che risultano persino perfetti esempi di comunicazione di tendenza. Altri ancora più fessi, come gli imbrattatori della domenica, rischiano la galera e multe fino a ventimila euro per filmarsi e postare sui social le loro attività di deturpamento di monumenti, quadri, statue, e persino del Colosseo e del Palazzo Vecchio di Firenze. Insomma, la violenza verso l’Arte e gli artisti vegeta e prospera.
Ora che dalla notte dei tempi la violenza sia generata nell’essere umano è persino ovvio, ma che si eserciti nei confronti dell’arte e degli artisti è assolutamente incomprensibile.
Tornando alla musica, si potrebbe dire che il pubblico “è sovrano” e la sua violenza è giustificata perché paga il biglietto. Assurdo, ma pare che questa regola sia ben condivisa. Io pago e nella misura del quanto, sono autorizzato a contestare quello che vedo, ad aggredire verbalmente l’artista, interrompere lo spettacolo, arrogandomi persino il diritto di scegliere il suo repertorio trattandolo come un jukebox o come Alexa. In questo contesto fischiare equivale a un applauso.
Capisco perfettamente Bob Dylan, quando decide di “sequestrare” i cellulari o rifiutarsi di eseguire le canzoni a richiesta, che poi sono sempre le stesse hit che ormai escono dalle orecchie. Dylan in questo è il più innovatore di tutti, dato che da sempre si sottrae con grande abilità e caparbietà dal rito della mitomania. Le canzoni non sono noccioline che si lanciano alle scimmie allo zoo. Che poi ci sia un pubblico becero, passivo, contento persino di farsi maltrattare a carissimo prezzo, con servizi inadeguati e persino assenti è un dato di fatto. Ma anche questo è un effetto causato dalla mitomania.
Ma c’è una violenza ancor più stabilizzante che bisognerebbe tener d’occhio. Quella tra gli artisti stessi che imitano i tribuni del web, dividendosi tra loro.
Con il caso Morgan, sono nate polemiche e battibecchi con I Pinguini Tattici Nucleari, Marracash, Ivan Cattaneo, persino Pupo ha dovuto dire la sua manco fosse Andrea Scanzi che per lo meno è un polemista di mestiere ed è pagato per farlo. Si invocano espulsioni, cartellini rossi, punizioni esemplari. E le polemiche tra artisti veri o presunti sono il peggior modo di portare discredito in tutto il settore della musica e dello spettacolo. Se anche gli artisti perdono la loro identità, imitando il peggio che consumiamo ogni giorno anche involontariamente, come possono essere considerati un punto di riferimento positivo per la gente?
Il controsenso di questo fenomeno però è che nessuno contesta più quelli che andrebbero contestati sul serio, come i politici che gestiscono il disservizio del loro potere, o gli editori che mandano in onda programmi spazzatura e finanziano giornali illeggibili. La contestazione è un diritto civile, per certi versi un’arte e un impegno sociale, ma non c’entra nulla con la violenza e l’ignoranza.
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