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sabato, Luglio 27, 2024

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PERCHÈ SANREMO È SANREMO

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Il Festival di Sanremo è stato come l’elezione del presidente. Soltanto più corto: cinque votazioni invece di otto.

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Ma come per Mattarella, si è imposto chi era già annunciato come vincitore prima del via: il duo Mahmood & Blanco. Da brividi la loro intesa, la canzone, l’interpretazione e pure i numeri da primato fatti in streaming dalla prima sera. Alla premiazione ridono, scherzano e non si commuovono, sono giovani e forti. Si prendono il doppio dei voti della femmina Elisa, che con “O forse sei tu” ha l’orgoglio di essere tornata da dove era partita vincente 21 anni fa, con la stessa pulizia nell’animo e nel brano. Il terzo posto di Gianni Morandi è il premio alla carriera di un giovane boomer.

sanremo

Per il resto il Festival è stato un po’ come rivedere “Amici” con Maria che ha piazzato più tronisti lì che a Uomini e Donne. Il primo della classe è stato il debuttante Sangiovanni già talmente animale da palco da farmi venire voglia di andarci anche io, stonata come una campana, alla scuola De Filippi.

La mia memoria ha già infilato nel dimenticatoio Highsnob & Hu, Aka 7even, Dargen, Ditonellapiaga, Rkomi, Tananai, Ana Mena, Yuman, impossibili da ricordare. Non sono nomi ma codici a barre e mi domando perché, come i panda, siano andati in estinzione i tradizionali e rassicuranti Carlo, Antonio, Caterina, Elisabetta…

Spuntano invece come funghi… porcini i torsi nudi e le mani malandrine che se in Achille Lauro, comunque, fanno la loro porno figura in Rkomi il risultato è da paura. Alla fine il Festival te lo guardi più che ascoltarlo, un po’ perché l’audio non è dei migliori, un po’ perché i testi sono una caccia al tesoro e un po’ perché il look e il numero di tatuaggi di chi li interpreta assorbe la tua concentrazione dal martedì al sabato. I centrini della nonna sul petto nudo di Irama, i (con)turbanti puzzle stilistici di Michele Bravi, il pigiama di Yuman, l’enorme abito bianco di Biancaneve, alias La Rappresentante di lista, che sotto lo strascico conteneva tutti i 7 nani, le canotte fantozziane (o bossiane, a voi la scelta) di Giovanni Truppi, il rosa fucsia alla Ferragni di Dargen D’Amico, le zeppe lunari della Rettore…

Sanremo è esuberanza e lacrime e i Maneskin ci hanno dimostrato quanto sia bello toccare il cielo con un dito restando ancora più attaccati alla terra e agli affetti che contano. Achille Lauro si è inchinato a Loredana Bertè dedicandole una lettera di scuse, Michele Bravi ha cantato tenendo in tasca le fedi nuziali dei nonni morti e in molti, dopo l’esibizione, hanno salutato la mamma e mica solo la zia Mara. Blanco ha addirittura attraversato di corsa la platea per andare ad abbracciare i genitori prima ancora di sollevare il trofeo.

Il Festival ci ha ricordato che non c’è un’età per sentirsi troppo giovani (Matteo Romano, 19 anni) o troppo anziani (Iva Zanicchi, 82) perché poi non riusciresti a classificare Gianni Morandi (77) che, oggi come ieri, ha l’entusiasmo di aprire tutte le porte, magari solo per andare a prendere il latte. Ne sarebbe capace.

Amadeus ha fatto il bravo conduttore, il ruffiano della patria (la sviolinata a Mattarella poteva risparmiarcela) e si è tenuto stretto l’imperativo di direttore artistico, allargando furbescamente la partecipazione a più generi e non rinunciando alla simpatia di Orietta Berti mandata in crociera da ferma con Fabio Rovazzi.  Per fare certe cose ci vuole naso, ma è anche vero che se gli ospiti sono amici non salgono sul palco per fregarti e così è stato con Fiorello, Checco Zalone, Jovanotti e la sorpresa dell’ultima ora, Mengoni, essenziale per lo share ma soprattutto per il dialogo con Filippo Scotti contro l’odio social: “Puoi dire quello che vuoi, ma non puoi dire il cazzo che vuoi. E ricordati sempre che la tastiera può essere un’arma”.

Amadeus è riuscito persino a togliere dalla scatola Laura Pausini che, con Mika ed Alessandro Cattelan, ha fatto la carrambata di lanciare il trio delle meraviglie alla guida dell’Eurovision torinese. Tra le co-conduttrici sufficienza moscia ad Ornella Muti mentre Lorena Cesarini ha trasformato un tema d’oro in un pippone narcotizzante. Ha colpito nei sentimenti Maria Chiara Giannetta, ci ha conquistato Drusilla Foer con due concetti che dovrebbero appartenere a tutti, unicità e meritocrazia, mentre Sabrina Ferilli ha fatto quello che le viene meglio: è rimasta se stessa, bella e possibile, ricordandoci che la leggerezza non è superficialità.

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In ogni serata ci sono stati sempre due eccessi (nel senso che erano proprio tanti, come le 6 coriste gospel di Lauro fatte arrivare da Harlem): i fiori di Sanremo dati a chiunque li chiedesse e le inquadrature alla moglie e al figlio di Amadeus, manco fossimo alla corte della regina Elisabetta. Ringrazio Sanremo perché non solo mi ha tenuto compagnia ma mi ha anche regalato due certezze ricolme di speranza: si può fare tv anche senza il retorico assillo di scazzi tra virologi e posso anch’io dirigere l’orchestra dell’Ariston, visto che mi sarebbe difficile fare peggio di Francesca Michielin.

E con la testa, con il petto, con il cuore ciao ciao. Al prossimo anno. In sala stampa, si spera.

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