Figlio mio questo è l’ultimo posto che visiteremo, ed è l’ultima volta che avrai un volto umano. C’è odore di marcio, è l’ora della pena, di norma l’ora delle spine. Ti spingeranno alla tomba, come un qualsiasi nemico mortale.
Per gli uomini sei venuto fuori da una rete bucata, come un ragno peloso.
La mia carne la credono innocente, non la toccheranno; vorrei potermi mettere sulla tua Croce come una cicala o un angelo, come una donna che urla all’impazzata il tuo nome. Figlio mio fammi piangere davanti al tuo respiro mortale, alla fine di questa croce, di questo pezzo di teatro.
Nessuno ha teso la mano, e Lui era una cosa santa del cielo.
Lei non ci credeva: nessuna madre arriva a pensare che un suo figlio possa diventare una fioritura mortale.
Maria avrebbe risalito l’abisso per salvarlo. Perché il suo bambino non avrebbe dovuto vedere il sangue, il vento furioso che gli avrebbe in eterno coperto la testa.
Oggi lo avrebbero buttato per strada o sarebbe venuto fuori dal mare rinserrato in uno scafo. E per salvarlo neanche la notte sarebbe voluta arrivare, il sole avrebbe voluto placare le onde.
Con Stabat Mater, Franco Simone ci ha infilato negli occhi un artiglio duro per richiamarci: la disumanità è il centro di tutto, l’unica epopea della coscienza; ci hanno inferociti, messo addosso una data un colore una provenienza; ci hanno fatto credere che la libertà sia un’idea governativa.
Stava la Madre addolorata con le mani visibili in segno di resa.
Ed eccolo ad afferrare l’essere impuro, a sciogliere la sua anima nel peccato e nella blasfemia. A farlo vergognare.
Franco Simone ha voluto essere l’uomo con il faro, il viaggiatore per mare, per sogni e in qualsiasi spazio si fosse aperto al suo amore.
Nel suo Stabat Mater ci avvisa che i morti non si capiscono, fin quando non si abbracciano.
Facebook Comments