24.7 C
Milano
venerdì, Settembre 29, 2023

Ultimi post

RACCONTARE LE CANZONI

Voto Utenti
[Total: 1 Average: 4]

Peace & love. Mai come oggi questo slogan appare così antico. Non mi riferisco ai massimi sistemi o al classico pacifismo hippy non violento di mezzo secolo fa, quanto al normale rapporto tra persone, al modo abituale di comunicare quotidianamente nel proprio ambito di lavoro o tramite i social media.

Ad esempio nell’ambiente musicale che in un modo o nell’altro ci coinvolge tutti, dato che non mi è mai capitato di sentire qualcuno che affermasse: “A me la musica non piace“. Tuttavia l’impressione è che nella musica, così come nella politica, diventi necessario essere antagonisti, divisi, aggressivi e competitivi anche tra musicisti e addetti ai lavori, senza manifestare il minimo equilibrio.

Un conto è avere uno spiccato e sano spirito critico, un conto è fare le pulci su ogni cosa con quotidiana solerzia, arroganza e presupponenza. Una provocazione ogni tanto ci sta ed è anche un bene, dato che stimola reazioni e fa riflettere, un altro è passare la giornata a spargere veleno, a giocare a fare gli haters, a mettere in scena da iene da tastiera quello che Enzo Jannacci ha cantato in una sua canzone insieme a Cochi e Renato: “Lo sputtanamento“. Pratica che per alcuni è diventato un mestiere anche redditizio, come certi noti influencer che ogni mattina devono inventarsi qualche acredine nei confronti di qualcuno, per aumentare i loro followers.

Non si capisce però, il vantaggio di chi denigra a piacimento ogni giorno per quattro soldi o addirittura gratuitamente. Capisco la politica perchè lì si decidono le sorti del Paese, presente e futuro, si manifestano storici rancori, culture da Guelfi e Ghibellini che si rinnovano, esercizi stilistici da duopolismo compulsivo e altro ancora. Ma perchè farlo nella musica?

Il sottoscritto lavora da una vita con gli artisti, nello spettacolo e in particolare nella musica, nella discografia, in radio e in televisione, quindi ritengo di avere una indubbia esperienza nel campo. Ebbene quando parlo di un musicista con un altro musicista, quasi sempre saltano fuori rancori, gelosie, invidie e cose private che si dovrebbero tenere nel cassetto per puro rispetto e pudore. La frase più gentile è “Quello non sa suonare“. Oppure si ragiona a compartimenti stagni come se i vasi non possano essere comunicanti.

Una volta un critico jazz mi disse. “Miles Davis suonando la canzone di Cindy Lauper, ha offeso il jazz“. Ma si può impedire a un mostro sacro come Davis di suonare quello che gli pare? Questo accadeva negli anni ottanta, quarant’anni fa, ma faceva parte di una cricca che stabiliva codici e regole a piacimento: quella della critica più o meno specializzata. Oggi invece nell’era digitale, è diventato il terreno di chiunque, anche di chi non ha suonato nemmeno un citofono.

Perché scrivo questo? Come semplice reazione a chi sui social media o sui giornali che ormai non legge più nessuno o quasi, si diletta nel dileggio compulsivo nei confronti di un artista come ad esempio Morgan e sulla sua arte di divulgazione delle canzoni, cioè sul “senso delle cose” in musica. In particolare a proposito del suo programma Rai “StraMorgan”, in cui lui stesso, mi ha coinvolto come autore come ha già fatto in passato.

Sapere raccontare le canzoni è materia complessa. Apparentemente sembra facile, ma non lo è affatto perché vanno studiati e analizzati vari componenti in gioco. Ci sono due elementi prevalenti. Quello realistico o più vicino alla narrazione storica autenticata, che mette in fila aneddoti, fatti, notizie, numeri, dati, dichiarazioni degli stessi autori e interpreti delle canzoni e il secondo, direi più importante e interessante, che riguarda la traduzione e la nostra interpretazione strettamente personale dei significati e significanti del testo letterario e della composizione musicale. Vale a dire ciò che sentiamo e vediamo nei confronti della canzone, aldilà del messaggio che l’autore ci ha offerto.

Questa pratica l’ho imparata da bambino grazie a mio padre che ogni domenica mattina mi portava a visitare mostre nei musei o nelle gallerie d’arte. Spesso davanti a un quadro di un’opera astratta, sentivo visitatori che commentavano: “Non capisco il significato, chissà cosa vuol dire?”

Mio padre invece mi invitava a “leggere l’opera” seguendo le mie sensazioni ed emozioni. Non importava se fossero più o meno attinenti con il messaggio rivelatore o nascosto dell’artista.

L’opera d’arte – mi diceva- è come uno specchio, sei tu che la percepisci attraverso la tua sensibilità e in ciò sta la sua principale funzione”.

Questo concetto è ancora più autentico nella musica. Ognuno di noi SENTE diversamente una canzone o una composizione, e non l’ascolta semplicemente. Ecco perchè una canzone o una musica apparentemente allegra, può provocare insofferenza, così come al contrario, una canzone o una musica lenta, malinconica e triste può portarci in un profondo stato di beautitudine. Nell’arte tutto è soggettivo, non oggettivo.

Morgan ad esempio, nelle sue “visite guidate” a StraMorgan o nel programma “Cantautoradio”, racconta le canzoni confluendo i due distinti elementi, descrivendo cioè il testo secondo il messaggio dell’autore e al tempo stesso secondo la sua personale interpretazione e percezione. Una narrazione totale, in parte apparentemente oggettiva, in gran parte soggettiva, in cui non è necessario né importante essere d’accordo o in disaccordo, ma è decisivo lasciarsi andare all’ esperienza, sospendendo il giudizio o pregiudizio. Tornare cioè al puro stupore dell’apprendimento, a quel tipico stadio infantile della scoperta innocente, in cui il giudizio o la certezza dello stesso, non è ancora in grado di esistere e di essere concepito.

L’esplorazione perché sia utile allo stato conoscitivo deve essere libera, aperta, pura, in una parola: vergine. Ecco perché è riduttivo e di scarso interesse descrivere una canzone come “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli come semplice canzone d’amore tra due innamorati. In realtà come da dichiarazioni ufficiali dello stesso autore e interprete, la canzone è il racconto di un atto sessuale tra una prostituta e un cliente, in cui Gino Paoli si identifica come testimone diretto. Il soffitto viola non è il cielo ma il soffitto del bordello che i due guardano distesi sul letto dopo aver fatto l’amore, così come l’armonica che suona e l’organo che vibra non sono simboli o strumenti mistici, ma gli organi sessuali femminile e maschile. Ma giustamente e convintamente, si può e si deve sentire e vedere oltre la descrizione rivelata dall’autore, superare cioè lo stato “oggettivo” per entrare in quello soggettivo e abbandonarsi alla poetica dell’amore totalizzante e universale.

Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti ma alberi….”.

Amore infinito, senza confini che ti porta a uno stato onirico di abbandono, dove sei tutto o niente. Ecco perché le due diverse interpretazioni possono coincidere: l’estasi e il sesso a pagamento, il piacere a consumo e la beatitudine dell’abbandono, l’anima e il corpo. Sono autentiche entrambi, il reale e l’immaginario si fondono insieme. Questo potrebbe essere l’approccio esperienziale corretto per entrare in modalità immersiva in una canzone, nell’opera, e attraverso lei, esplorare noi stessi, le nostre singole emozioni e percezioni.

E’ purtroppo un approccio poco radicato, molto raro, perché viviamo in un mondo dominato dall’ ovvietà, dalla presunta conoscenza del comune senso dell’apprendimento nozionistico, dal puerile accademismo scolastico in cui si nega un “sentire” più profondo che viaggia oltre gli schemi del “sapere” conforme.

Facebook Comments

Latest Posts

I piu' letti

Resta in contatto

Per essere aggiornato con tutte le ultime notizie, offerte e annunci speciali.