Il nuovo album dei Maneskin, “Teatro d’ira – Vol. I”, il secondo della loro carriera, esce a due anni dal debutto con “Il ballo della vita” ed è una vera sorpresa.
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Rilasciare un nuovo album a seguito di una partecipazione al Festival di Sanremo sta nell’ordine delle cose, la grande visibilità fornita dalla manifestazione può trainare tanta positività che bisogna cogliere in fretta in un mondo che brucia suoni e parole con una certa rapidità. Se poi in quella storica kermesse si ha conquistato il gradino più alto l’atto discografico diventa fondamentale per comprendere l’atteggiamento dell’audience, che a sua volta sarà incuriosita da ciò che si nasconde dietro l’angolo: sarà tutt’oro, come quello che ci è stato mostrato sul palco?
Non mi riferisco di certo ai seguaci storici ma a chi ha scoperto – o semplicemente ridisegnato – un progetto che, magari, era in attesa di piena valutazione.
Loro sono, naturalmente, i Maneskin, vincitori del Festival con il brano “Zitti e Buoni”, contenuto nel loro secondo lavoro appena uscito, “Teatro d’ira – Vol. I”.
Dei tratti salienti dell’album, l’oggettività e le date del loro tour ne abbiamo già parlato in questo sito (leggi articolo).
Proverò invece a commentare l’album e a spingermi verso alcune considerazioni, generali e specifiche.
Parto dalle prime e dalla mia curiosità rispetto ad un Sanremo che, da un po’ di tempo, ha preso una via “moderna”, una sorta di cambio di passo che lascia spazio ad artisti spesso conosciuti solamente dalla generazione in corso. Rap, trap, parole più importanti della musica e liriche – spesso poco edificanti – che vanno in un’unica direzione.
Non è una critica, non mi permetto, ma una constatazione. Resta in corsa l’Orietta nazionale, ma sa tanto di benefica concessione.
E poi arriva una band – perché è di questo che si tratta – che rimette al centro la musica ma non perde di vista il messaggio, propone un rock duro e inserisce un modus vocale molto attuale ma con testi che vanno controcorrente. E allora ci si chiede… ma come faranno questi giovanissimi, dopo ogni passaggio, a lasciare traccia di Led Zeppelin, di Deep Purple, di generico Punk, con un ritmo preciso e riff chitarristici devastanti? E poi quegli abiti, quell’immagine… che siano loro gli iconoclasti arrivati da chissà dove per riportare un po’ di ordine in questo maldestro universo musicale? Che tocchi a loro tracciare il bridge di ritorno verso una certa indiscussa qualità?
Esco dai dilemmi irrisolvibili e provo a commentare il nuovo disco dei Maneskin, il secondo, registrato in presa diretta, un metodo abbastanza diffuso anche in questa nuova era e che molti musicisti “antichi” adottano, ma di certo è palese la contrapposizione con la perfezione tecnica di cui si nutre la nuova generazione. E qui prende forma il contrasto, quasi ideologico, tra analogico e digitale, che sa tanto di scontro generazionale, ma quando la genuinità è presentata proprio da chi, per mero elemento anagrafico, potrebbe cibarsi di Auto-Tune e magie tecnologiche, beh, sembra quasi di vedere una flebile luce in fondo al tunnel.
Sono otto i brani che fanno parte di “Teatro d’ira – Vol.I”, un disco che potrebbe strizzare l’occhio al mercato anglosassone per tipologia della proposta, e i due episodi in lingua inglese ne sono la piena testimonianza; e poi si sa, il rock e l’idioma inglese, per i puristi del genere, rappresentano un connubio imprescindibile.
Uno sguardo alla lineup dei Maneskin:
La voce è quella di Damiano David mentre alla chitarra troviamo Thomas Raggi; la sezione ritmica è invece composta dalla bassista Victoria De Angelis e dal batterista Ethan Torchio.
Apre l’album “Zitti e Buoni”, ovvero la nobiltà, la canzone che è entrata di diritto nella storia della musica italiana.
Musicalmente parlando il carattere arriva da un ritmo ossessivo e da un lick chitarristico che non molla e avvolge dall’inizio alla fine. Il succo del messaggio, al netto della possibile cripticità e molteplicità di significati, risiede nel ritornello: “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro…”, una dicotomia – tra alcuni atteggiamenti giovanili – che fornisce grosse soddisfazioni se si pensa a quanto possa essere efficace un messaggio veicolato in tal maniera, da ragazzi verso ragazzi.
“Coraline” affronta uno dei possibili volti del disagio giovanile: “… è una bambina però sente come un peso e prima o poi si spezzerà, la gente dirà… non vale niente, non riesce neanche a uscire da una misera porta…”.
Contrasto rilevante per il modus vocale che appare sussurrato nei due estremi della canzone, mentre nella parte centrale l’atmosfera diventa distopica e il sapore di grunge sgorga spontaneo. Una delizia il virtuosismo chitarristico di Thomas Raggi.
Con “Lividi sui gomiti” arriva il senso di rivalsa, una sorta di nemesi rispetto ad un pregresso che, immagino, sia stato caratterizzato, anche, da critiche personali: “Quindi tu resta con il tuo gruppo, striscia, prega, confonditi; a noi il coraggio non ci manca, siamo impavidi, siamo cresciuti con i lividi sui gomiti…”.
Un altro rock duro, molto duro, che sottolinea la propensione e la voglia di live che, prima o poi, arriveranno copiosi.
“I wanna be your slave” è la prima traccia in lingua inglese, molto più vicino al pop e alla facilità di fruibilità trasversale.
Chi determina i ruoli all’interno di una coppia? Chi è lo “slave” e chi il “master”? Dove può condurre la complicità totale e l’avere un obiettivo comune? E chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato all’interno di quel perimetro sacro?
Musicalmente appare non perfettamente in linea col fil rouge dichiarato, ma nel gioco dei contrasti all’interno dello stesso contenitore ci sta anche una variazione sul tema.
“In nome del padre” descrive la delusione del ventenne che, nonostante il breve cammino percorso, può già contare su di un cumulo di delusioni che, in un certo momento della vita, senza adeguata struttura personale, pesa come un macigno e condiziona nelle scelte, ma la volontà di rialzarsi e superare le intemperie è più forte ogni colpo subito.
La gravità dei concetti viene qui trasposta nella durezza sonora, un drumming ossessivo, un giro di basso ipnotico, mentre la voce cangiante emerge sfruttando il tappeto chitarristico che la fa da padrone.
Con “For your love” arriva la seconda proposta in lingua inglese: un incontro casuale, il lasciarsi andare, una relaziona stocastica che presenta tante incognite ma, si sa, per un amore, anche se tossico, si fa qualsiasi cosa.
Pezzo molto “internazionale”, quasi cinematografico nel senso dell’utilizzo come possibile colonna sonora. Rock tradizionale e senza collocazione particolare, piacevole e di impatto immediato.
“La paura del buio” descrive un conflitto che attanaglia, prima o poi, tutti gli artisti, probabilmente amplificato in questo momento di estrema difficoltà per gli addetti ai lavori.
Il musicista e la sua dipendenza dalla musica, un rapporto talvolta di odio e amore di cui però si ha bisogno, avendo la certezza che esiste una situazione di equità tra il tolto e il dato.
Forti contrasti all’interno dello stesso brano: un arpeggio iniziale ripetitivo sfocia in un mood aggressivo e lacerante. E quando la musica, da sola, riesce ad essere rappresentativa della lirica, significa che il processo compositivo è autentico e vincente.
Il disco chiude con un manifesto, “Vent’anni”, la ballad che non può mai mancare in un disco di rock. Ma anche in questo caso siamo al cospetto di roba seriosa, un invito ai coetanei che ha un peso notevole, perché lanciato da pari e rivolto a pari, non certo il monito di qualche saggio diventato tale per esperienza accumulata.
Un urlo rivolto a chi utilizza l’elemento anagrafico come alibi per giustificare comportamenti che conformano ad una falsa ortodossia della libertà. Ma essere libero nell’essenza è un’altra cosa, e prendere le distanze dagli stereotipi appare come un buon inizio.
L’immagine che i Maneskin propongono sembrerebbe quasi anacronistica, a partire dal cuore del progetto, quel rock puro che non è certo dominante nel panorama italiano, ma che la band pare sdoganare attraverso un’operazione che non si può certo definire nostalgica, vista l’età dei musicisti. Che sia di buon auspicio, non tanto immaginando un’inversione di tendenza che appare improbabile, ma almeno idealizzando una felice convivenza tra generi differenti… in fondo c’è spazio per tutti.
Strafelice che certa musica immortale sia stata assorbita dalla nuova generazione convinto che, quando il pensiero “analogico” si mischia alla nuova tecnologia, i risultati possano diventare esplosivi!
Unico neo la breve durata, ventotto minuti scarsi, ma quel “Vol. 1” lascia aperta la porta ad una successiva e rapida continuazione.
Una bella sorpresa i Maneskin!
TRACKLIST: Teatro d’ira – Vol. I
08. VENT’ANNI (04:13)
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