Ci sono artisti che, volenti o nolenti, accolgono su di sé un bagaglio culturale che da semplice formazione personale diventa preziosa risorsa anche per la collettività. Vuoi perché hanno respirato l’arte fin da piccoli, vuoi perché hanno assorbito – di quel mondo speciale in cui sono cresciuti – tutti i sapori, vuoi perché, soprattutto, hanno trasformato quello che poteva essere un “peso” in un meraviglioso fardello grazie a una genialità che non è solo eredità genetica.
E tra i nomi che hanno saputo far tesoro anche di quell’essere figlio di che a volte diventa un’etichetta fastidiosa rendendogli, invece, pieno onore c’è sicuramente Paolo Jannacci, eclettico musicista e cantautore che si muove tra musica, teatro e televisione districandovisi con la disinvoltura dei grandi. A quattro anni di distanza dal precedente album, Paolo torna a farsi ascoltare con un disco jazz, “Hard Playing”, in uscita oggi 24 marzo per Ala Bianca Records su distribuzione Warner.
“Riguardo a Hard Playing posso dirvi che racconta la mia voglia di suonare, con il mio gruppo di lavoro preferito e indissolubile”: così Jannacci introduce il suo album, che risponde al bisogno di un ritorno alla musica nella forma di un jazz raffinato e al passo coi tempi. Nel disco, nove tracce di cui due cover, prodotte dallo stesso Paolo e suonate in quartetto con Stefano Bagnoli (batteria), Marco Ricci (contrabbasso) e Daniele Moretto (tromba).
Intensità e delicatezza, essenzialità e pienezza dei suoni, riflessività e un tocco ludico rendono “Hard Playing” un album che si ascolta con piacere perdendosi nel tempo della canzone. Ben più di una canzone è, invece, durata la chiacchierata con Paolo Jannacci, che incontro in un pomeriggio milanese in quella che fu la casa dei nonni. Privilegio nel privilegio. Ecco l’intervista che, tra un aneddoto e l’altro, è stata accompagnata da esilaranti battute del musicista (ahimè, non sempre la parola scritta riesce a riportarne a pieno la forza, ma tentar non nuoce).

Il 24 marzo esce il nuovo album “Hard Playing” e vorrei partire da un’osservazione macroscopica: a parte una traccia con titolo per metà italiano, tutte le altre sono in inglese. Come mai?
Perché alla fine l’inglese semplicemente condensa meglio un concetto e ha una sua musicalità. Credo che l’italiano sia una delle lingue più eleganti ma per sintesi tendo a preferire l’inglese. Nel disco vecchio avevo usato come titolo di una traccia La vita scorre che era in alternativa alla sua versione in inglese: ho preferito l’italiano per la sua eleganza; qui c’è Troppo smog che ha una sua musicalità che rispecchia il brano.
E, invece, come è nato il titolo dell’album?
Avevo sentito il mio precedente album, “Allegra”, e mi sembrava onesto ma in certi punti stucchevole, quasi acerbo. Era troppo strutturato e, siccome la musica più sincera deve arrivare senza tante sovrastrutture, avevo bisogno di qualcosa di emozionale che davvero rappresentasse la mia soggettività insieme a quella dei musicisti con me. Abbiamo, perciò, pensato a qualcosa che risultasse più sperimentale e rispettasse certi canoni in coerenza con le armonie e lo stile più duro del progetto; tutto ciò è confluito in questo titolo. In italiano, “Suoniamo duro”, non sarebbe stata la stessa cosa, ti pare?
Qual è, stata, dunque l’esigenza artistica o personale che ha dato la scintilla per far partire questo lavoro?
Questo album fissa la nostra conoscenza ventennale del jazz aprendo, nello stesso tempo, un’altra pagina rispetto all’album precedente. Volevo iniziare a mettermi in un’ottica adulta, con una musica non fine a se stessa ma che considerasse anche il diritto dell’ascoltatore. Emotivamente, ha una marcia in più: ne esce uno Jannacci meno legato a certe strutture che lo imbrigliavano nel passato. Ci siamo tolti ogni pensiero per concentrarci solo sull’aspetto creativo e tutti i pezzi sono stati lavorati a quattro mani, anche quello di cui magari avevo già io un’idea di base che ho poi sottoposto agli altri.
Quali erano le briglie che ti facevano sentire legato in passato?
Di solito, quando si suona, si ha la preoccupazione di suonare come qualcun altro. Questa volta ho suonato come suono io: bene o male, ma sono stato sincero. È il mio primo album di jazz vero, anche per lo spirito con cui è nato.
Da non esperta di jazz, mi viene da dire che sia innanzitutto un’attitudine personale innata, a cui segue una formazione musicale strutturata per poi nuovamente spogliarsi di certi rigorismi e recuperare una spontaneità originaria. È così?
Perfetto, hai fatto la sintesi, hai detto tutto. Ci sono dei canoni che è giusto rispettare ma alla fine è giusto anche allontanarsene. Il più grande jazzista mondiale, Charlie Parker, diceva che bisognava studiare e dimenticarsi tutto; lo studio è fondamentale perché devi sapere come poter fare una cosa ma poi te lo devi dimenticare e dare tutto te stesso.
Nell’album sono inserite due cover, come le avete scelte?
Sono particolarmente legato a questi due brani per un’affezione stilistica personale. Fin dai tempi del conservatorio ho iniziato ad avvicinarmi a Who Can I Turn To grazie al mio vecchio maestro Carlo Morena; ho cominciato poi a rielaborarlo e a sentirlo mio, tanto che lo avevo suonato anche a Zelig per il pubblico una sera in cui c’era superospite il papà. Da allora, ho continuato ad averlo tra le mani e questo era il disco giusto in cui metterlo. Discorso simile per You Must Believe in Spring, ricordo ancora la prima volta che la sentii, su disco; me la sono studiata e l’ho suonata live in duo. È un bel pezzo, avevo voglia di suonarlo e quindi ho voluto metterlo nella tracklist proprio perché credo che la partenza migliore di un brano sia il volerlo suonare dal vivo.
Come vi è venuta l’idea di una copertina che vi ritrae come ricercati?
Mi piaceva l’idea di fare una copertina che richiamasse “I soliti sospetti” con una certa ironia perché io e gli altri musicisti con me – Marco, Stefano e Daniele – ci prendiamo spesso in giro anzi, usciranno dei video con gag umoristiche fra di noi, con un sarcasmo forte. Ce ne diciamo di ogni! Come cover abbiamo scelto un’immagine di gruppo che sembra una foto segnaletica; ci sono io, con lo smoking tutto stracciato, reduce da non si sa cosa; Ricci semi contento senza un motivo; Bagnoli arrabbiato e Moretto con il fare di chi sta dicendo “te l’avevo detto io!”. Nasce tutto dai nostri giochi, dal nostro atteggiamento ludico.
È vero che questo album doveva uscire insieme a un progetto pop?
Sì, inizialmente doveva esserci anche un disco pop, ma per ora l’ho tenuto lì e spero esca presto. Voglio lasciarlo sedimentare e credo che, da una parte, sia un bene ma dall’altra porti anche a eliminare più facilmente brani, a fare una selezione più spietata. Ho già buttato via parecchia roba! In ogni caso, la canzone ha un altro spirito, devo sentirmela io per primo, e darle l’intensità giusta facendola anche maturare; questo disco era, invece, prettamente musicale. Personalmente avrei anche fatto uscire un triplo album, ma me lo hanno sconsigliato anche perché poteva risultare troppo ridondante. Insieme al CD esce, però, con un DVD dedicato al papà che è frutto di un impegno che è costato lavoro e fatica; ne sono soddisfatto e mi fa piacere farlo uscire ora perché rappresenta la bellezza di suonare dal vivo.
A proposito di “lavoro del musicista”: quanto la tua formazione artistica e la tua scelta di fare musica è stata influenzata dall’avere un padre come Enzo?
Beh, lui mi ha sempre lasciato carta bianca, ma di certo quello che mi ha fatto respirare negli anni dell’adolescenza mi ha chiaramente influenzato. Mi ha fatto conoscere la bellezza di quel mondo e, tra i dieci e i quindici anni, ho iniziato a pensare che mi sarebbe piaciuto fare il musicista. Poi l’illuminazione decisiva l’ho avuta a diciassette anni, a scuola. Pensa che mi ricordo ancora il momento esatto, il punto preciso della classe in cui ero seduto: ho esclamato qualcosa ad alta voce, mi devono aver preso per matto! (ride, ndr)
Negli ultimi anni si è assistito a una riaffermazione, almeno in termini di spazi destinati a performance live, del jazz. Come vedi la scena italiana di oggi?
La vedo bene, con eccellenze internazionali, suonano molto meglio di me; del resto credo che il jazz sia un genere che non morirà mai perché è una musica onesta che mette tutti a proprio agio. Poi, certo, sta all’intelligenza estetica di chi la suona farla apprezzare. In Italia abbiamo la capacità di inventare grandi temi melodici e questa è una qualità tutta europea fin dal melodramma. Oggi, tra i nomi più importanti, posso citare Paolo Fresu, che la fa padrone: è eccezionale, lui è musica perché è proprio così, non fa nulla di forzato. Poi ci sono Dado Moroni, riconosciuto tra i grandi anche in USA, Stefano Bollani che fa tutto, è inarrivabile, un mostro. Sono felice di tutte queste eccellenze che sono i portavoce italiani nel mondo.
Parlando di generi, da sempre ami sperimentare anche con incursioni in generi molto diversi dal jazz e dal cantautorato, e penso al rap. In che modo il tuo mondo musicale si incontra con quello di J-Ax e Fedez?
Per prima cosa credo che non bisogna mai relegarsi in un genere perché la musica è bella tutta e, se sei un musicista vero, devi essere capace di suonare tutti i generi. Ti dico, papà amava attorniarsi di musicisti che venivano dal jazz perché avevano comunque un approccio più vero alla musica e riuscivano a essere meno freddi: per la serie meno business e più voglia di comunicare. Non ci devono, però, essere chiusure. Per quanto riguarda J-Ax e Fedez ero in un periodo in cui stavo lavorando poco ed, essendo amico di Alessandro, l’ho chiamato per sapere come stava preparando il suo live; mi ha risposto dicendo che aveva libero lo slot di tastierista e me lo ha proposto. Ho accettato subito anche se questo significava rimettersi in gioco in un altro modo, ma avevo voglia di fare quest’esperienza e ringrazio Ax per l’opportunità.
E quest’avventura come si è rivelata sul palco?
Sul palco ci compensiamo a vicenda: io do loro la mia energia e il mio know how e loro mi restituiscono la loro energia pazzesca. Il fatto di condividere la propria musica con 8-9 mila persone a sera è una cosa che solitamente a me non capita, anzi è impensabile, e ovviamente mi fa piacere. Poi, c’è una componente molto ironica dello show: Ax e Fedez mi sfoggiano, a un certo punto, come fossi il loro Rolex, il fiore all’occhiello e parte una gag. I pezzi del concerto sono belli e mi piace suonarli, spero di sbagliarmi il meno possibile: sbaglio un sacco ma camuffo sennò si inceppa la macchina perfetta del live! È uno show fatto davvero bene, pensato bene e loro sono due mostri: J-Ax è super coinvolgente, riesce a tirarti dentro nello spettacolo come nessun altro e poi è proprio bravo a rappare dando nuovo senso ai suoi brani in un ibrido tra rap e rock. Non è facile. Fedez, che conoscevo meno di Alessandro, mi ha stupito per la sua capacità di mettere a proprio agio gli altri cosa che, per i musicisti e il pubblico, è importantissima; rende piacevole condividere un certo momento. E poi è un grande imprenditore di se stesso e di ciò che fa, mi fa davvero molto piacere conoscerlo meglio in questa occasione.
Oltre a quelli con il tour di “Comunisti col Rolex”, ci saranno appuntamenti dal vivo con cui presenterete “Hard Playing”?
Intanto, il 26 aprile sarò in Feltrinelli dove suonerò, magari ci vediamo lì. Appena finito il tour con Ax e Fedez, partirò con concerti miei: dipende anche da ciò che scrive verte voi media! Io voglio trasmettere quella voglia di vivere che non molla mai, che anche il più grande insegnamento che mi ha lasciato mio padre.

Di seguito la tracklist di “Hard Playing”:
- Flux
- Troppo Smog
- Comfort Zone
- You Must Believe in Spring(cover del brano di Alan Bergman, Marilyn Bergman, Jacques Demy, Michel Legrand)
- On Cue
- Hard Playing
- Who Can I Turn To (cover del brano di Leslie Bricusse e Anthony Newley)
- Solaris
- Streets of New York
“Hard Playing” viene reso disponibile in formato digipack contenente anche il DVD dello spettacolo “In concerto con Enzo” con filmati inediti raccolti nel tempo che raccontano – in un’unica registrazione continuativa – una serata estiva dopo un acquazzone. A regalare un ricordo sincero di Jannacci Senior colleghi e amici di Paolo come Paolo Tomelleri al clarinetto, Sergio Farina alla chitarra e J-Ax nel brano Desolato. L’Arte, quella vera, non ha età né confini di genere.
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