A volte alcuni incontri nascono fortuitamente, quando magari non li stai cercando, e poi si rivelano così interessanti da segnarti. Quante volte capita in amore? In questo caso è successo nell’occasione che mi ha portato ad incontrare Kaballà autore, insieme a Francesco Bianconi (Baustelle) di “Le canzoni fanno male” portata al Festival da Marianne Mirage.
Ecco l’antefatto: ero a pranzo con un Antonio Putzu, bravissimo musicista ma soprattutto amico carissimo (in tour in questo momento con lo splendido spettacolo Il casellante, su testo di Andrea Camilleri, che vede protagonisti Moni Ovadia, Mario Incudine e Valeria Contadino). Tra le altre cose raccontavo degli artisti giovani di Sanremo, delle interviste che stavo conducendo e lui mi dice d’improvviso “conosci Kaballà? Ieri mi raccontava del brano di Marianne Mirage. Ti va di parlarne anche con lui?”
Ne è nato un incontro ricco di spunti interessanti, carico di entusiasmo, di passione per la musica, di saggezza ma anche di leggerezza e di scherzo. Uno scambio in cui il brano è diventato il pretesto per parlare di scrittura, del ruolo degli autori e del concetto stesso di gara. Senza tralasciare i suoi precedenti Sanremo com Mario Venuti, Antonella Ruggero, Nina Zilli. E tanto tanto altro.
Ciao Kaballà, ti ringrazio moltissimo per la disponibilità. Mi piacerebbe parlare con te di “Le canzoni fanno male”, brano che Marianne Mirage porta sul palco di Sanremo nella categoria Giovani e che ti vede autore insieme a Francesco Bianconi dei Baustelle.
Intanto ti sottolineo che ho scritto sia musica che testo, entrambe insieme a Francesco. Ti va di ascoltare il provino?
Certo… [ascoltiamo, ndr]
Il brano nasce in origine con forti richiami vintage, molto francese, ricorda Serge Gainsbourg: del resto i nostri riferimenti musicali sono quelli.
Ascoltata così è in linea anche con la discografia di Bianconi.
Esatto. Le canzoni nascono in un certo modo e poi prendono varie vesti. Ovviamente è stata messa sulle corde di Marianne Mirage. Questa è una canzone scritta al femminile pensando proprio a una donna.
Quindi è stata scritta pensando a lei?
No, è nata pensando in generale ad una brava interprete. Sai, le canzoni circolano nell’ambiente. Io sono un autore Sugar: mi hanno chiamato dicendomi che tra i giovani c’era una ragazza davvero brava ed io ho chiesto di conoscerla, perché occorre capire la timbrica e la personalità. Sia io che Francesco l’abbiamo incontrata e in effetti ci è sembrata subito molto in gamba. Abbiamo adattato un po’ il brano su di lei attraverso vari esperimenti fino alla versione che conoscete. Siamo contenti che Marianne abbia dichiarato alla stampa che questa canzone l’ha sentita veramente sua, è importante perché poi le canzoni devono diventano di chi le indossa.
Eppure lei è anche autrice, o sbaglio?
Si, e questo dimostra che spesso chi scrive è propenso a cantare canzoni di altri con assoluta tranquillità. Invece ultimamente sembra che chi tradizionalmente è stato interprete sia diventato insofferente, iniziando a scrivere di proprio pugno canzoni che però non riescono bene.
Questo è un argomento importante, sul quale ci si interroga spesso ultimamente.
Ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere altrimenti si peggiorano le canzoni. Secondo me è un grave difetto di questa società ipertrofica in cui ognuno vuole far tutto. Mina non si sognerebbe di scrivere. Mina canta e lo fa benissimo: prende le canzoni e le fa sue. Anzi, diventano più sue che degli autori. Il terzo elemento di una composizione è sempre la voce. Chi interpreta dovrebbe capire che ha un in mano un elemento fondamentale. Sembra invece che ci sia una frustrazione da cantautori: se sei Carmen Consoli e sai scrivere è una cosa, ma se ti improvvisi tale…
Probabilmente è un difetto legato al ruolo forte che i cantautori hanno nella cultura italiana.
A maggior ragione. Se c’è una tradizione forte allora devi fare un passo indietro, altrimenti il confronto è impietoso. Come ti dicevo prima la canzone diventa tua in ogni caso, se è fatta bene ed è confezionata in una maniera adeguata. Io sono assolutamente critico su questo tendenza a “diventare” autori di sé stessi. Per cui ben vengano persone come Marianne Mirage che pur sapendo scrivere capiscono l’importanza di questo ruolo e accettano di buon grado la collaborazione.
Se interpreto bene non ti riferisci all’umiltà di accettare un brano, ma piuttosto alla competenza di chi capisce che un brano merita e non ha bisogno di rimaneggiamenti.
Certo, a meno che non si decida insieme che c’è bisogno di una modifica in grado di abbellire il brano. Ma mettere le pezze pur di cofirmare è ridicolo. Purtroppo avviene e ne sono nati tanti piccoli Frankstein.
Quindi l’obbiettivo dovrebbe sempre la qualità del pezzo?
Io sono per la co-scrittura purché sia seria e non di facciata. Significa scrivere un pezzo seriamente, farlo nascere insieme. Certo, a volte succede che mi arriva una musica e io metto il testo ma preferisco di gran lunga quando il brano nasce insieme. Ad esempio con Mario Venuti tutti i miei brani nascono come un magma che fuoriesce dall’incontro, dove io spesso lo aiuto a “partorire” le parole magari da uno spunto in un suo taccuino: in una intervista a RaiTre Mario l’ha definita addirittura una sorta di “funzione maieutica”.
E in tutto questo la musica come si integra?
Autori come me che scrivono anche le musiche hanno una consapevolezza maggiore, perché se conosci bene la musica sai quando retrocedere col testo. A volte occorre rinunciare ad alcune parole a favore del suono. Devi rispettare la struttura dei brani, capire cosa è un minore o un maggiore per scegliere le parole adeguate. È un discorso molto ampio.
Ho una curiosità: ho l’impressione che si sia persa la consapevolezza che lo spessore e la credibilità del testo è fortemente legata al senso musicale della melodia, agli accenti musicali e alla metrica. Riscontro una carenza in tal senso proprio nei cantautori giovanissimi.
Si. Secondo me si sta facendo molta confusione nello scrivere. Una volta le canzoni pop le modellavi sull’uso anglosassone, facendo il finto testo. Era però molto e difficile lavorare con le tronche: tutt’ora le tronche le sanno lavorare pochissimi in Italia. Da qualche anno in Italia si è imposto l’uso di mutuare la parola dal mondo del rap. Qualche esperimento è buono, ma si appesantisce la musica. La lingua italiana è difficile, è una lingua piana nella quale si inseriscono tutti gli altri accenti (sdrucciole, bisdrucciole). Non siamo anglofoni. Prima l’autore doveva lavorare su determinate gabbie e per non essere banali doveva avere delle intuizioni geniali. Adesso ci si accosta alla canzone con moduli compositivi e armonici ormai fissi.
Parli del giro armonico ormai sempre uguale?
Si anche. Soliti giri nei quali non c’è apertura sul ritornello, in cui tutto è uguale dall’inizio alla fine. Sembra che vada di moda ma da questo a fare una bella canzone ne passa.
Torniamo a “Le canzoni fanno male”. Da quanto mi dici non è stata scritta appositamente per Sanremo. Eppure è calzante: a Sanremo le canzoni dovrebbero renderci contenti e invece “fanno male”, nonostante tutti gli stilemi amore-cuore e così via.
Questo è il motivo per cui è stata scelta: è una canzone provocatoria. Certo, quando l’abbiamo scritta non pensavamo a Sanremo ma piuttosto alle canzoni come sono oggi. Io e Francesco veniamo da altra scuola, in particolare Francesco: se ascolti i Baustelle ti rendi conto che non sono per nulla “costituzionali”. Ma anche il mio pop è orientato ad altro. L’intento di “Le canzoni fanno male” è ironico: le canzoni non sono rassicuranti, le canzoni non fanno bene. Tu hai colto il senso: tutto è giocato al contrario, si usa la parola cuore-amore per negarla: “troppe rime amore-cuore… e non sono neanche divertenti”, perché le canzoni dovrebbero divertire ma in realtà non lo fanno. È la critica a questa canzonetta del nuovo millennio. Io adoro la Canzonetta, sono figlio di Sanremo: qui ho avuto successo. Però adoro le canzoni intelligenti, adoro quando ci sono tracce e sotto-tracce, quando si può leggere sotto e al di là della canzone. Ti faccio un esempio: io ho scritto “L’uomo che amava le donne” per Ninna Zilli; in quel brano ci sono citazioni di Truffaut, ci sono citazioni dongiovannesche. Però è costruita in modo che il primo strato, il plot, possano capirlo tutti. Se poi sei fornito culturalmente capisci anche il sub-plot, le citazioni, e quindi leggerla su più piani.
Mi pare di capire che tieni molto a questo aspetto.
Si. Ho voluto trascriver quello che è il film di Truffaut, ma sforzandomi di estenderla a tutti. “Le canzoni fanno male” è una canzone volutamente vintage, è un richiamo ad una sorta di “Caterina Caselli 2.0”. Anche e soprattutto musicalmente: ci sono citazioni precise a “Paint it black” dei Rolling Stones, a ”Bang, Bang” canzone cult degli anni ’60. Come dicevo i nostri riferimenti sono i francesi insieme alla canzone anglosassone. Lo risconti anche nel testo: la storia d’amore che nasce da bambini, l’uso di termini come “discoteca”, “decibel” ormai in disuso. Anche la musica è vintage: la struttura armonica mantiene chiaramente strofa e ritornello sono ben separati, il suono è volutamente brit. Questi sono i nostri gusti, tipicamente non sanremesi. Ed infatti non sempre siamo a Sanremo: quando capita cerchiamo di portare la nostra storia personale e di incarnare questo mondo un po’ “altro”.
Ma questa voglia autenticamente vintage non rischia di essere accorpata alla più ampia moda del momento?
Non credo. In particolare Francesco da sempre ha il “vintage” come propria cifra stilistica: non deve dimostrare nulla perché è assolutamente coerente con la sua storia. Semmai è la moda che in questo momento sta procedendo verso noi.
Mi dicevi della sonorità…
Il brano e l’intero EP di Marianne Mirage è stata registrato da Tommaso Colliva (che poi è Calibro35) a Londra con musicisti inglesi: come vedi è evidente la voglia di fare un prodotto in linea con i nostri gusti. Se poi incontra anche i gusti del pubblico, della radio allora ha avuto il suo esito a Sanremo. È importante quando passi attraverso Sanremo riuscire a portare un brano che sia amato e che allo stesso tempo possa avere quelle caratteristiche di diversità, di raffinatezza, di ricerca seppur nella semplicità. Questo è quello che io mi sono sempre proposto, con “Crudele” di Mario Venuti ad esempio, o con “Echi di Infinito” di Antonella Ruggiero, o con Nina Zilli come ti dicevo prima. Brani che magari vincono il premio della critica.
Quindi non ti entusiasma la gara?
No. Io vedo che ci sono autori che ogni anno presentano quattro, cinque canzoni. Io preferisco farne una, e non sempre. Anche perché nel frattempo si fa altro: ad esempio ci tengo a dirti che è appena uscito il disco di Ferruccio Spinetti e Petra Magoni [Musica Nuda, ndr] con tre canzoni mie: e non è un disco che va a Sanremo. Oppure che l’anno scorso ero comunque a Sanremo come ospite con “Rosa nata ieri” di Eros Ramazzotti. Bisogna cercare di fare cose giuste e a volte riesce bene e altre un po’ meno. Sono contento di essere a Sanremo tra i giovani quest’anno. Ma c’è dell’altro però che mi piacerebbe dirti sull’aspetto gara…
Dimmi pure.
In giro si sono tanti talent e tutti si basano sul concetto di “duello”, tutti portano con se questo odore di sangue. “Tu sei fuori!” è giù lacrime, e poi i genitori… Troppo “lacrime e sangue” nella musica, anche a Sanremo? A me non mi piace l’idea dell’eliminazione: si può anche arrivare all’ultimo posto, qual è il problema? Che opportunità si dà a questi ragazzi? Hanno fatto settemila trafile, prima sono in cinquemila, poi in cinquecento… alla fine arrivano in otto. Si fanno mesi di prove in giro per l’Italia, l’orchestra, i viaggi, le prove generali… E poi si canta una volta soltanto e si è eliminato?
Credo che tu abbia ragione.
Ed anzi l’anno scorso era addirittura più cruento: uno contro l’altro, con le luci, “tu, eliminato!!, “tu, rimani!”. Ma che senso ha? Trovo che sia di cattivo gusto. I talent sono in TV per otto mesi all’anno, non possiamo farne a meno per una settimana? Ma è un gusto e un’abitudine ormai dilagata anche in atri aspetti della società. E una sorta di giacobinismo, una voglia di ghigliottine in piazza con questo popolo con la bava. Io odio queste cose.
È una mancanza di rispetto del lavoro che ci sta dietro, inoltre.
Ma dovremmo parlare di musica, di canzoni, dei ragazzi che sono tutti brani. Purtroppo questo fa ancora parte anche del gioco sanremese. Nel nostro caso Marianne Mirage è brava, scrive bene. Sugar è una etichetta che cura i suoi artisti, Caterina Caselli non è una che ama il conetto di “usa e getta” ma che piuttosto lavora sulla carriera degli artisti per condurli a camminare con i propri piedi.
Un ultimo aspetto: cosa pensi del fatto che gli autori siano sempre in ombra?
Sai che a Sanremo non esistono i pass per gli autori? È più facile entrare come parrucchiere. È una cosa incredibile, e questo la dice lunga. Per carità, è vero che la canzone diventa di chi la interpreta ma sarebbe giusto che si parli anche degli autori. Quando negli anni ho vinto qualche premio non sono mai stato invitato di diritto, e se ho partecipato è perché mi conosceva qualche addetto ai lavori. Il grande pubblico non conosce gli autori. Anzi io sono tra i fortunati, dato che a volte mi citano in radio perché ho un trascorso leggermente diverso. Ma per altri colleghi nulla. Sarebbe davvero opportuno che si desse loro la giusta visibilità. In teoria è il “Festival della canzone” e non del cantante.
Per quella che è la tua esperienza, questa è una cosa tutta italiana?
Non so. Considera che nel resto del mondo non ci sono Festival come il nostro, ma ci occasioni di riconoscimento di quanto realmente accade: è il caso dei Grammy in cui si premia chi davvero ha fatto bene o ha avuto successo evidente. Però non saprei dirti se davvero la poca visibilità degli autori è un fenomeno solo italiano. Certi autori d’oltreoceano spesso hanno avuto dei riconoscimenti importanti però è anche vero che anche in Italia alcuni autori, cantanti a loro volta, sono conosciuti: Fossati per esempio, così come Jovanotti e tanti altri ancora. Sarebbe però auspicabile che chi fa il mestiere di “puro” autore, così come chi sta dietro le quinte (arrangiatori, produttori) abbia il suo spazio di notorietà, la sua giusta comunicazione: del resto sono artisti che fanno il bene della musica.

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