di Paola Pellai
Ogni volta che vado a Roma devo andare a riprendermeli. Quegli occhi e quel sorriso oggi, 14 agosto, compiono 88 anni, ma Lina Wertmuller continua “ad indossarli” con la stessa ironica irriverenza di quando, 49enne, si presentò prima regista donna (“Questa considerazione non m’interessa, puzza di vecchio femminismo”) con 3 nomination all’Oscar (per “Pasqualino Settebellezze”) all’elegante cerimonia di premiazione con un’enorme cintura di ottone, ricavata da un calamaio.
Ho conosciuto Lina un giorno d’agosto del 2013. Mi arrampicai in Alta Badia, sulle Dolomiti altoatesine, per strapparle un’intervista. Me l’avevano raccontata come rocciosa e un po’ lunatica, quindi l’incontro poteva arrivare o non arrivare. Arrivò e fu l’inizio di un’amicizia nata su una panca e un tavolo di legno senza un orologio a divorarci il tempo, senza il suono di un cellulare ad invaderlo ma con un caldo sole estivo a coccolarci in un pranzo all’aperto, innaffiato da due calici di bianco generoso. Come succede nelle migliori interviste, le domande andarono ben presto a quel Paese per lasciare spazio all’improvvisazione di una conversazione dove passato e presente profumavano tanto di futuro. Perché Lina non ha paura di nulla, né dell’anagrafe, né degli acciacchi né – di come la chiama lei – della “morticchia”. Vive la serenità dell’esistere, con una progettualità mai doma, instancabile nell’andare ovunque la chiamino. E così il 25 settembre sarà a Luino, nel Varesotto, a ritirare il Premio Chiara alla carriera. Un altro dei tanti premi alla carriera.
Quando vado a trovarla nella sua abitazione, alle spalle di piazza del Popolo, mi abbraccia forte, spegne il televisore e come prima cosa mi chiede come sto. Sempre. Ascolta. Sa ascoltare, che di questi tempi è un pregio grande. E se può ti aiuta, che oggi è una rarità. Con me lo ha fatto.
Un giorno le domandai cosa cercava nell’altro. “Tutto ciò che ha di bello – mi rispose -. Strafigo nei pensieri e nel corpo. La mia voglia di entrare nelle esistenze non si placa mai. Sarebbe molto bello se ognuno di noi scrivesse la propria vita. E’ un modo per sistemarcela nella mente, per prenderle le misure. Forse per migliorarla”. Questa è Lina, la regista che ha ancora voglia di migliorare. Trascorre le giornate guardando e riguardando film, di ogni genere (“Soprattutto di notte. Le cose migliori le passano tardissimo, intramontabili pellicole in bianco e nero. Dormo 3 o 4 ore”).
Mai una malinconia, ma il piacere del ricordo. E l’affetto per tutti quelli che hanno recitato con lei. Li ha fatti lavorare duro, li ha costretti ad imparare il dialetto, li ha portati nel caldo torrido, li ha fatti cantare e ballare, attraversando il tempo e andando persino più in là. Perché nei suoi film ci sono i risvolti della politica, i contrasti della lotta sociale, l’anarchia e il potere operaio, ma ci sono soprattutto uomini e donne tratteggiati in maniera forte, indelebile. “Pasqualino Settebellezze”, ma anche “Mimì Metallurgico ferito nell’onore” e poi “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, “Film d’amore e d’anarchia”…. Giancarlo Giannini e Mariangela Melato se li è legati stretti stretti, ma anche Sofia Loren, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio… Tutti i pilastri del cinema italiano sono entrati nel suo occhio attento.
Entrare nella casa della Wertmuller è terapeutico: il suo sorriso è la risposta migliore a chi consuma l’esistenza nella lagna. Lei ha sempre detto di aver camminato nel “lato assolato della strada. Non fa parte della mia natura lamentarmi. Non ho rimpianti, mi è andata bene. Ho attraversato in maniera positiva tutto il mio tempo, divertendomi tanto. Per essere felici bisogna innanzitutto volerlo, per almeno altri 20 anni io non ho intenzione di cambiare lato della strada”. E te lo dice guardandoti in faccia con quegli occhiali bianchi che ormai “fanno parte del mio arredamento personale. Li incontrai anni fa in vacanza. Andai in una fabbrica. L’ordine minimo era di 5mila pezzi. Li pagai a rate”. E ancora ci ride sopra su quella montatura che l’ha resa riconoscibile ovunque.
Sul palco sono ancora applausi quando recita “Un’allegra fin de siécle”, un festoso e acido viaggio nel Novecento raccontato attraverso la sua ottica dissacrante, ma la sua popolarità non si attenua neppure negli incontri pubblici dove la gente accorre per stringerle la mano e farle domande.
Tra i suoi motivi d’orgoglio c’è quello di aver sempre rifiutato l’etichetta di aver girato commedie all’italiana preferendole quella di grottesche. “Amo deformare la realtà – mi spiegò – perché solo così riesco a raccontarla. Il grottesco è pieno di eccessi, ha linee ingrossate. Rappresenta meglio la mia esistenza. Non solo. Era quello che ci voleva per dare i contorni migliori ai miei ingredienti preferiti, spesso intrecciati tra loro: il sesso e la politica, fatta soprattutto di stereotipi. Proprio deformandoli uscivano le caratterizzazioni migliori”.
La verità è che gli 88 anni di Lina restano quelli di un Gian Burrasca, da lei girato per la Rai in otto puntate negli anni ’60 con Rita Pavone protagonista. Già, perché non sarà un caso se, da giovane, Lina Gian Burrasca è stata cacciata da 11 scuole tra ginnasi, licei, magistrali: “Tutto vero. Avevano ragione loro, non ero tranquillizzante come allieva. Ma sia chiaro: io adoro le regole. Altrimenti come mi divertirei ad infrangerle?”. Auguri, Lina!
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