di Giò Alajmo
Dopo aver dichiarato la dismissione dopo quasi mezzo secolo del marchio Jethro Tull, il buon vecchio Ian Anderson sorprende tutti portando in tour… Jethro Tull.
Inutile chiedere al vecchio flautista scozzese, invischiato nel commercio di salmoni, di restare nei canoni del consueto. Il suo pubblico lo pretende sul palco e lui ogni volta si inventa qualcosa di nuovo che coinvolga il vecchio.
Dopo il tour di “Thick as a Brick 2” ecco quindi la sua nuova band di giovani col pedigree impegnata in un progetto “Jethro Tull Rock Opera” che riesce a stupire. Certo, ci sono le vecchie canzoni, tutte le principali sin dalle primissime fine anni ’60, altre concepite lungo il percorso o generate per l’occasione. Ma Anderson le incastra in un percorso logico che diventa il racconto di Jethro Tull, l’originale agronomo del ‘600 da cui la band prese nome, ipotizzando cosa sarebbe successo all’Inghilterra di oggi se lui vi avesse importato le sue idee sulla coltivazione con gli attuali canoni e biotecnologie, in un mondo affamato di nove miliardi di persone.
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E siccome il tempo passa e la voce e il fiato sono corti, dopo anni di stravizi e malanni, Ian aggrega al progetto il figlio videomaker e crea uno show a due dimensioni, quella reale dei musicisti in palco e quella virtuali di altri personaggi, musicisti e cantanti, proposti sul videowall sul fondale in una serie continua di clip recitati e cantati, ambientazioni agresti, duetti alternati, cori, in uno continuo alternarsi in cui la voce virtuale si sostituisce, o si alterna, a quella reale senza soluzione di continuità.
Gran parte dei cantati (non abbastanza da deludere i fan accaniti) è affidata su video alla deliziosa cantante e violinista islandese Unnur Birna Bjornsdòttir e al giovane attore dell’Old Vic Brian O’Donnell che già affiancò dal vivo Anderson nel precedente Thick 2 tour.
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La fusione dei due mondi è tale che spesso Anderson si trova doppiato dall’Andreson virtuale, fino a dialogare e duettare con se stesso e l’effetto playback si ribalta, con il chitarrista Florian Opahle che suona un complicato assolo in sincrono con l’immagine di se stesso sullo schermo, o l’immagine del tastierista John O’Hara che canta in coro sullo schermo doppiato dal vivo dalla voce di… se stesso in persona.
In venti brani l’opera si snoda ripescando classici come “Heavy Horses”, “Wind Up”, “Aqualung”, “Back to the family”, “Songs from the wood”, “Living in the past”, “Jack in the Green”, “The witch’s promise”, “A new day yesterday” “Locomotive Breath” fino al finale omaggio a Tull e a Bach in un “Requiem and Fugue” che ingloba la famosa “Bourrée”.
Teatro non pieno, ma trionfo finale per un musicista venuto dal tempo delle idee.
Si replica oggi a Torino e domani a Bergamo.
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Crediti foto copertina: Giò Alajmo
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