di Athos Enrile
Pochi giorni fa ho assistito all’ennesimo concerto dei Delirium –nell’occasione in accoppiata con le ORME – ma non voglio soffermarmi sul racconto dell’evento, peraltro da me descritto nei dettagli in altro spazio in rete.
Unendo gli umori –positivi– della serata ad un episodio accaduto di recente in RAI, mi viene spontanea una riflessione. Ma andiamo con ordine, con la ricerca dell’estrema sintesi.
I Delirium fanno parte della storia della musica italiana ma, come ogni tanto accade, sono ricordati dalla massa per un episodio dalla straordinaria importanza, che però non si può considerare rappresentativo dell’intera produzione musicale creata nel tempo.
Per sottolineare il particolare di cui parlo risalgo ad un momento personale, banale, ma significativo.
Era il 27 febbraio del 1972, la solita domenica mattina fatta di oratorio, messa cantata (fu quello il periodo in cui chitarre e batterie salirono sull’altare!) e jam musicale post funzione. Avevo 16 anni.
Dodici ore prima era terminato il Festival di Sanremo e i Delirium avevano spopolato con Jesahel, arrivata poi al sesto posto, ma di impatto immediato e successivo campione di vendite.
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Il complesso locale aveva già assimilato il brano che, anche nella saletta dell’oratorio, era diventato aggregante, e il coro di Jesahel uscì da ogni fessura di quella stanza gremita di giovanissimi. Solo 12 ore dopo la fine di Sanremo!
Erano i Delirium di Ivano Fossati, che di lì a poco avrebbe preso il volo verso altre direzioni, sostituito dal britannico Martin Grice, tuttora nella band.
Il tastierista Ettore Vigo ha mantenuto il ruolo recitato a Sanremo, unico membro presente in tutte le line up.
Nacque in quegli anni la musica progressiva, e i Delirium intrapresero quella strada, non certo commerciale, più complicata, meno spendibile, diventando per un certo periodo i Jethro Tull italiani, per effetto della presenza del flautista (meglio fiatista….) Grice, uno che a 20 anni bazzicava le stanze di Bill Wyman –bassista degli Stones– e aveva il camerino accanto a Jimi Hendrix.
Tra momenti di sosta e reunion arriviamo sino ai giorni nostri, e accade che la formazione trovi una certa stabilità e rinnovato entusiasmo, che si traducono in un album di fresca uscita, “L’era della Menzogna”, con una formazione eterogenea (oltre ai già citati Vigo e Grice troviamo il bassista Fabio Chighini, il batterista Alfredo Vandresi, il vocalist Alessandro Corvaglia e il chitarrista Michele Cusato) che sul palco smuove l’audience.
Ritorno all’episodio RAI, quella trasmissione (Quelli che il calcio…) in cui Nicola Savino chiede all’ospite, Piero Pelù, di individuare se la Jesahel che sta ascoltando sia della band vera o una cover. Entusiasmo finale, come sempre accade, nello scoprire l’originalità del gruppo e la freschezza del brano, tuttora coinvolgente.
Ma… non sono questi i Delirium!
Da un lato c’è quindi il piacere di aver inventato e proposto qualcosa che è rimasto nella storia, seppur con l’impronta indelebile e autorale di Fossati, una canzone che tutti aspettano ad ogni concerto, il bis perfetto per chiudere in bellezza.
Dall’altro lato, forse, l’immagine creata è diventata una piccola “gabbia” che niente ha a che fare con il lavoro enorme, gli sforzi e l’impegno che la band attuale ha profuso e continua a mettere in campo, divertendosi e divertendo.
Il mondo musicale è cambiato e il ruolo che i Delirium hanno scelto di recitare li relega in nobile compagnia nella nicchia, perché quello è il DNA.
Ma se la storia del gruppo può contare su di un successo planetario, beh, perché non regalarlo ad ogni nuovo episodio? Da quanto ho visto pochi giorni fa, a Pegli, Arena del Mare, è forse l’occasione migliore per entrare in piena comunione di intenti con il pubblico, e ciò non può che fare bene, magari aprendo la strada per un approfondimento che, probabilmente, allargherà gli orizzonti musicali di chi ascolta.
Provo a dare qualche pillola di nuovo…
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