La musica va cambiata e presto, prima che scompaia nell’oblio dell’intrattenimento.
Siamo all’anno zero e da qui bisogna ripartire. La strada è lunga, impervia, piena di ostacoli, innanzitutto culturali.
E’ necessario riportare la musica al centro dell’emotività, ai mille significati che può offrire. Oggi siamo sommersi da un rumore di fondo, da un suono metropolitano che si diffonde nell’indifferenza totale. Suona come la pubblicità. Invasiva ed effimera, quasi ininfluente perché non tocca affatto il nostro stato emozionale. Ci attraversa ma non rimane perché non ci emoziona. La diffusione e la fruizione di ciò che sentiamo è solo esteriore.
Parliamo di canzoni. Si deve ripartire dal testo. Una canzone è un racconto, una storia o la descrizione di un fatto, di un avvenimento, di un ricordo, di un desiderio o di un bisogno.
La canzone, volente o nolente è un messaggio. Può e deve contenere una forza espressiva perché possa coinvolgerci in modo semplice ma intenso.
La maggioranza dei testi che sentiamo oggi respinge ogni nostra volontà di identificazione, di appartenenza. Sentiamo perlopiù canzoni d’amore, dinamiche di coppia tra speranze e abbandoni, rinascite e delusioni, Peccato che sembrino tutte uguali a discapito del fatto che ogni storia d’amore è unica, diversa da ogni altra.
Le generazioni di oggi non riescono a raccontare nemmeno l’epoca che stanno vivendo, la sue mutazioni, le sue enormi contraddizioni. Solo nel mondo hip hop c’è stato qualche tentativo di critica e di riflessione verso la Società, ma è poca cosa. Si sono dimenticate le tematiche, eppure questa epoca ci offre ogni giorno realtà spietate, violente e impressionanti: la nuova schiavitù in cerca di salvezza, il pianeta violentato, la scomparsa dell’aggregazione fisica, la solitudine digitale, l’informazione a comando del potere non più esercitata nel controllo censorio ma addirittura falsificata, una menzogna costruita a pagamento, una bugia per ogni click, una diffamazione per ogni centesimo.
Dimentichiamo e accettiamo tutto. Gioiamo per lo sfruttamento, per il potere dei soldi, per un mercato globale che rappresenta una bolla continua, dalla finanza all’immobiliare, dall’economia digitale allo spreco delle spese statali, dai contratti multimilionari dei campioni del calcio e dello sport. Vediamo crescere la povertà, la scomparsa del ceto medio, l’indebitamento pubblico e privato e restiamo in silenzio, manifestando il nostro disappunto sui social come fosse un semplice giochino di società, di hobby casalingo.
Eppure nonostante tutto rimaniamo persone, non siamo solo clienti. Siamo umanità non utenza. La canzone potrebbe raccontare tutto questo ma non lo fa, tranne rarissime eccezioni. Ma che colpa abbiamo noi? Verrebbe da cantare. La colpa è essere silenti.
E poi c’è il suono. Oggi non più creato, ma assemblato, uniformato dalle macchine. Il suono si manipola, non si crea. E’ già tutto offerto in formato plug in. Scarica un loop, scarica un file, lo metti in fila e crei musica, ma non inventi nulla. E’ il nuovo ciclo industriale. O ti adegui o sei costretto a vendere la tua Fender o la tua Gibson come oggetti d’antiquariato. Ho passato più di vent’anni negli studi di registrazione a inventare suoni, o meglio a trarre dagli strumenti musicali il valore del suono. Si lavorava dall’origine della materia, dal legno, dalla pelle, dalla corda per esaltarne il suono, per impreziosirlo. Si studiava il muro del suono di Phil Spector, i rewind a nastro delle chitarre di Hendrix. Si cercava l’eco o i reverberi delle chiese, delle caverne, delle stanze a volta. Si esaltava il sussurro, il respiro della voce, non solo la sua potenza o l’estensione. Un lavoro e un’esperienza straordinaria. Quando producevi un disco non potevi mai immaginarlo finito. Era artigianato, laboratorio, metodo di ricerca, esplorazione. Oggi entri in sala sapendo già cosa fare. L’approccio produttivo è un semplice rendering. Va quindi cambiata la produzione della musica. Limitare il potere delle macchine. Sostituire gli autotunes con le prove, quelle umane. E non si tratta di realizzare la voce perfetta, ma l’interpretazione che dà emozione, pur con le sue imperfezioni, perché umani siamo e restiamo nonostante tutto.
C’è poi la santa musica strumentale. Santa ed eroica, perché nessuna radio la diffonde. In radio non si ascoltano i maestri compositori che ci hanno fatto emozionare portandoci dentro alla gioia, allo smarrimento, alla paura, alla melanconia, all’estasi. Nelle radio o in tv non sentiamo più Morricone, Vangelis, Brian Eno, Miles Davis, Keith Jarret, Charlie Parker, Ry Cooder, John Barry e tanti altri. I grandi compositori che hanno segnato l’epoca del jazz, del cinema, addirittura del suono, sono stati relegati nella “nicchia”, nella riserva indiana condannati all’estinzione.
La musica strumentale va fatta rinascere, a partire dalle scuole. Si distruggano i flutini dolci ( che non servono a nulla ) e si impongano i pianoforti, le chitarre o le percussioni. I nostri bambini meritano di meglio.
C’è poi l’ascolto. Qui il discorso è complicato ma sta a noi ritornare alla purezza dell’ascolto vero, intenso e partecipe. Innanzitutto bisogna esercitare la pratica del silenzio. Una cosa simile al digiuno. Togliersi dalle orecchie la spazzatura quotidiana. Esercitarsi almeno un’ora al giorno senza suonerie, trilli, rumori meccanici o elettronici. E’ come aria condizionata contro l’afa e la canicola. Poi va usato un metodo di concentrazione per l’ascolto della musica. Concentrazione e attenzione in grado di esaltare la nostra percezione sensoriale. Per farlo basta un buon impianto e un buon disco, non importa se vinile o cd o file. Tutto quello che dobbiamo fare è stare lì ad ascoltarlo, cercando di seguire le infinite sfumature del suono, le sue profondità e il significato delle parole. Possiamo farci un videoclip immaginario da soli. La musica ( quella vera, di qualità ) si ascolta senza distrazioni. Non dico a occhi chiusi ma almeno senza far niente d’altro. Queste pratiche semplici, quotidiane ci riportano all’abitudine dell’ascolto attento, profondo, intenso.
Qui non si tratta di veganesimo musicale, ma di salute artistica e mentale. Si continui pure a ballare, a usare la musica come rumore di fondo. Niente è proibito. Ma contemporaneamente cerchiamo di riabituarci al bello, salvaguardando il nostro stato emozionale e la nostra crescita culturale, perché la cultura ci aiuta a vivere meglio.
Ci sono i media. Radio e tv. Siamo onesti. Sappiamo benissimo che ai media servono solo abbonati, clienti. La musica per i media è puro intrattenimento. Non altro. Non c’ è poi così tanta differenza tra una segreteria telefonica musicale e un programma di canzoni. Si lavora sull’effimero. Sulla nostalgia vintage e sul pezzo usa e getta che finisce negli spot. Della musica non si parla, né si ascolta con attenzione. I minutaggi delle canzoni si assottigliano, si riducono sempre più, compresi i testi che praticamente diventano come tweet. Ininfluenti perché troppo minimali. I testi vengono spogliati dai loro contenuti. Si fanno frattaglie e brandelli, non opere definite come sono state scritte. Riduci che riduci non resta più nulla. Intendiamoci non c’è niente di male nel vedere le gare musicali in tv, ma se si vedono solo quelle che ne è della musica prodotta, pensata e finita? E’ solo ostaggio di altro?
La musica va cambiata. Ma prima cambiamo noi stessi. Abituiamoci a considerarci persone possibilmente libere dai mille condizionamenti del mercato. Non siamo solo fan, non siamo solo merce, non siamo solo consumatori, acquirenti o clienti, siamo persone libere di agire o perlomeno di difendere e proteggere le nostre emozioni che sono nostre, non del mercato. Amen.