di Luca Viviani
Come si fa a non amare Tori Amos? Come si fa a non amare una donna che ha sempre affrontato la vita a muso duro e con una coerenza artistica e di pensiero uniche? Oppure come si fa a non amare un album che inizia con un’armonia al piano di una bellezza inarrivabile come quella di “Reindeer king”?
Si è vero, la cantautrice ha reso, spesso e volentieri, la strada facile ai detrattori, con una produzione che a definirla umorale e altalenante si rischia di volerle bene. Si potrebbe azzardare che è dai tempi di “Scarlet’s walk” che non riesce a essere convincente fino in fondo (si, lo so, mi assumo tutta la responsabilità di questa affermazione), anche se il precedente “Unrepentant Geraldine” aveva fatto ben sperare per il ritorno al grande cantautorato.
Ma è con quest’ultimo lavoro, “Native Invader“, che Tori riesce a dimostrare di avere ancora molte carte da giocare. Non è un caso se ho accennato alla camminata di Scarlet, perché le atmosfere sembrano nascere lì e così i testi, spesso marchiati di invettiva politica, allora contro Bush, oggi contro Trump.
Attraverso tredici tracce (15 nella versione deluxe) la Amos scava nella storia, ripercorrendo le sue radici native, di origine cherokee, e raccontando drammi personali, con un album degno delle sue produzioni migliori. Un album che regala più di uno spunto di riflessione e un ritorno alla bellezza, con arrangiamenti misurati e calzanti.
Ma è soprattutto la scrittura che torna a essere viva, come nel brano di apertura già citato, o nella splendida “Broken arrow” e la sua sorprendente coda. Insomma, un lavoro che è degno di Tori Amos che da Tori Amos ci aspettavamo e che di Tori Amos racconta, come un riassunto, o un affresco, la storia artistica, così ammiccante nel delineare profili e tracciare strade che sembrano accompagnarci lungo tutta la sua carriera. Grazie, Tori. Bentornata!
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