Non accenna a cessare la polemica sulle palme in piazza Duomo a Milano. Qualche scellerato ha pure pensato di infiammarne una, diversi giorni fa, alimentato da una certa politica dell’odio, in segno di protesta. L’esilarante commedia stavolta è ambientata, come detto, a Milano, piazza Duomo. La Starbucks, nota azienda di caffè all’americana, ha bisogno di far parlare di sé per promuovere l’imminente apertura di un suo punto vendita a Milano in piazza Cordusio. L’obiettivo è stato centrato, si parla delle (povere) palme. L’architetto Marco Bay, progettista dell’intervento, ha pure avuto un minimo di visibilità. Ne ho sentite, e lette, tante in merito all’intervento delle palme in Piazza Duomo a Milano, tante, ma nessuna che mi soddisfacesse.
Per capirne di più ho chiesto un parere di merito a due esponenti del mondo accademico e culturale. Ho contattato la Prof. Rosanna Pirajno, docente della Facoltà di Architettura di Palermo, attenta alle questioni ambientali e al ruolo del progetto architettonico alle trasformazioni (a volte scellerate) del nostro territorio; e il Prof. Attilio Terragni, nipote del padre dell’Architettura Razionalista Italiana, Giuseppe Terragni.
Ho chiesto Loro: «un parere sul ruolo del “luogo”, tanto caro ai maestri dell’Architettura e verso, visti i “boschi verticali e palmeti lombardi”, il ruolo e la responsabilità dell’architetto come disegnatore di una città nuova».

La prof. Pirajno mi risponde che la prima cosa che le è venuta in mente, alla notizia delle palme al Duomo, è stata “La linea della palma” di Sciascia. Segue la conseguenza della globalizzazione che livella il concetto stesso di “luogo” e quindi la differenza che faceva Rosario Assunto tra “spazio”, entità commensurabile e non identitaria e “luogo” che invece racchiude i caratteri del popolo e delle vicende che lo hanno plasmato, e non si può misurare se non in termini di benessere psicofisico Mi dice: «A mio avviso l’identità di Piazza Duomo è data dal carattere severo e asciutto dell’architettura medievale in un contesto urbano che non contempla “verdure”, introdotte negli spazi urbani pubblici dopo la rivoluzione industriale, che aveva inquinato le città».

Il prof. Terragni mi risponde in maniera provocatoria: «verdura (torna il termine “verdura” nda) e architettura è una bella barbarie. Chi l’avrebbe immaginato un simile teatrino. Ascoltiamo Platone, non i piccoli amministratori che passano. Struttura fisica e struttura morale in una città coincidono, saggezza che, quando scompare, porta all’inferno dantesco: selve oscure in cui far smarrire la Dea Architettura». Rimango estasiato dalla visione di quest’inferno dantesco. Mi suggerisce, prima di congedarsi un libro di Tommaso Montanari “le pietre, il popolo”, già preso.
Sono felice per queste risposte che tolgono ogni mio dubbio e perplessità sul (non) senso dell’intervento. L’architettura di una città inchinata per una trovata pubblicitaria. Pensavo che dopo i poveri alberi piantati nel bosco verticale, dove è autunno in tutte le stagioni, di averle viste tutte. Fortunatamente, almeno questo, sarà un allestimento temporaneo (tre anni) sempre che le malcapitate “verdure” esotiche (alte due metri “… e poco più”) resistano alle temperature continentali milanesi.
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