Fuocoammare è il film che rappresenterà l’Italia ai prossimi Oscar nella categoria “miglior documentario”.
Un film-documentario che già ha vinto l’Orso d’Oro durante la Berlinale e ricevuto i complimenti anche di Meryl Streep la quale ha espresso in più di un’occasione di amare questo film, e che avrebbe fatto l’impossibile per portarlo negli USA.
Tuttavia la polemica che si è aperta ultimamente ha centrato il problema proprio nel genere stesso: documentario o film? Ebbene probabilmente la categoria per la quale è stato nominato, non è – ad avviso di chi scrive – indicata.
FuocoAmmare non è un film: è un documentario.
La Streep ha però affermato che “Sì, è un documentario, ma è anche arte… il modo in cui viene mostrata la realtà lo rende quasi una poesia”.
Ebbene però, mi chiedo, come questo documentario possa esser visto come poesia, data l’atrocità dell’argomento trattato e delle immagini mostrate, eppure è così.
Un film estremamente delicato, sensibile all’animo dello spettatore; forse anche troppo, tante le metafore presenti, ed in questo, l’abilità di Gianfranco Rosi, è indiscussa e indiscutibile.
Il bambino con l’”occhio pigro” vuole essere la metafora che Rosi usa per dirci come stiamo vedendo la realtà, ma che siamo anche troppo pigri per osservarla veramente.
Tuttavia, questa potrebbe risultare una debolezza del film: non sempre l’accostamento traslato crea una riflessione, però è evidente che il regista vuole puntare a riprodurre la realtà così com’è, non servendosi di attori professionisti, come quando ci racconta in parallelo, la vita di Samuele, il bambino dall’occhio pigro che gioca per le strade, che si diverte a tirare con la fionda e colpire piante e uccelli, utilizzato per esprimere l’astio ingiustificato che proviamo per il diverso da noi, o da qualcosa che non comprendiamo bene.
Tuttavia queste continui confronti vanno un po’ a discapito della volontà di riprodurre la realtà: appare strano infatti la mancanza di tecnologia, di cellulari, di internet: sembra quasi che lo si volesse ambientare in anni un po’ più distanti dai nostri: particolarità che ci fa estraniare e allontanare dal renderci consapevoli della realtà nel momento in cui la si racconta.
Nota di merito per la capacità espressiva in cui racconta visivamente in modo eccellente “il momento”, certamente il fatto di testimoniare in modo dettagliato quanto succede, riportando fedelmente e senza filtri dei corpi morenti, dei corpi morti e disperazione, senza alcuna recitazione, lascia spiazzati, ma allo stesso tempo fa pensare: perché la scelta tra il testimoniare e l’aiutare è stata compiuta e questo, se ci si arriva, è il momento che angoscia di più: la consapevolezza entra prepotentemente in noi.
In conclusione il film, se tale vogliamo definirlo, è tecnicamente ineccepibile: lo dimostra anche il fatto che Gianfranco Rosi è rimasto un anno a Lampedusa per diventare parte di questa tragica realtà.
Chi racconta il problema e la tragicità di un fenomeno attuale come quello del flusso migratorio verso un paese lontano, abusa della “notizia” creando nello spettatore un sentimento di angoscia tale da non farlo agire, ma solamente star male.
Tuttavia, se lo scopo era quello di far riflettere tramite analogie e metafore, allora non ci è riuscito.
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