Spero che prima o poi la Medicina identifichi con precisione questa malattia dell’uomo moderno che spinge ognuno di noi a immortalare una scena unica o straordinaria della quale ci capita di essere testimoni, con il progetto di pubblicarla in rete prima di chiunque altro allo scopo di ottenere consensi, condivisioni, visibilità.
Questo avviene ormai in maniera del tutto istintiva e fuori dal controllo della logica che dovrebbe fungere da filtro per identificare il contenuto che riteniamo conveniente, giusto, rispondente alla nostra etica rispetto a quello inappropriato o inopportuno.
Anche e soprattutto Tv e testate giornalistiche soffrono di tale sindrome. In relazione alla tragedia avvenuta a Parigi Venerdi 13 Novembre, quale informazione in più ci forniscono le immagini delle vittime a terra e dei sopravvissuti terrorizzati, rispetto a ciò che abbiamo appreso tramite le agenzie stampa? Esattamente, quanti dati abbiamo raccolto dai video che ritraggono uomini disperati che saltano da una finestra, in fuga dalla follia omicida dei terroristi? E’ questo il “diritto all’informazione”?
Ragioniamo su un fatto. In momenti terribili e importanti come un attentato terroristico, la gente ha fame di sapere prima ancora che di capire (questo è il passo successivo) e ogni particolare “visivo” porta facili contatti e visualizzazioni immediate. Ma quelle immagini non sono altro che un’enorme vetrina pubblicitaria per chi rivendica i fatti di sangue rappresentati, perché è chiaro che il fotogramma di un atto di indicibile violenza e crudeltà ha un impatto diverso dal racconto “verbale”, per quanto ricco di dettagli possa essere.
Stiamo parlando del principio secondo il quale vengono riprese le decapitazioni degli “infedeli” e messe in rete dagli stessi autori delle stragi: un monito per i nemici e un incentivo per i poveri di intelletto che possono essere reclutati, puntando sulla fascinazione dell’imposizione della forza e dell’ordine sul presunto caos che regna nel mondo. In parole povere: siamo noi la regia, facciamo il montaggio e ci occupiamo della diffusione massiva dei loro successi, al posto dei terroristi stessi.
In tempi antichi il signore del castello impalava i propri nemici all’esterno delle mura, in modo che fossero visibili e facessero da monito a chiunque considerasse l’idea di dichiarargli guerra. Oggi, questo lavoro di esposizione e divulgazione lo facciamo noi stessi, le vittime, e regaliamo il prodotto confezionato ai nostri persecutori.
Ripropongo ora le domande con cui ho aperto l’articolo: è davvero necessario condividere e divulgare certe immagini? E’ opportuno farlo in questa specifica situazione?
E ora: a chi giova tutto ciò?
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