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domenica, Settembre 24, 2023

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Non c’è pace per Lucio Battisti, tra programmi mediocri e lettere della moglie a Mogol

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Sono molte le polemiche a seguito del documentario: “Lucio per amico. Ricordando Battisti” andato in onda su Rai1 in occasione del venticinquesimo anniversario dalla sua scomparsa avvenuta il 9 settembre 1998.
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Un racconto che fin da subito mette in evidente risalto il periodo del sodalizio artistico Battisti – Mogol. Agli occhi dello spettatore appare subito evidente che il ricordo di Battisti è l’occasione per celebrare la figura del noto autore di testi Giulio Rapetti, in arte Mogol.

Sono immediate sui social le reazioni di alcuni colleghi di Mogol. È Alberto Salerno a fare da apripista, si chiede se non sia “un filino eccessivo” il paragone che il cantautore Mussida fa quando paragona Mogol a John Lennon, tra i vari commenti sotto al suo post spicca senz’altro quello di Francesco Rapetti, figlio di Giulio:

«Non amo mai parlare di Giulio (suo padre, nda). Per una volta lo faccio. Punto uno: Mussida non ha paragonato Mogol a Lennon. Anche un bambino lo ha capito. Il paragone era diverso, del tipo ‘Lennon con Paul nella scrittura sta come Mogol a Battisti’. Cioè il senso era che entrambi erano coprotagonisti nella scrittura dei brani».

Affermazione che viene smentita dallo stesso Salerno che scrive mettendoci una pietra sopra: «In questo caso Mussida ha doppiamente sbagliato perché a livello autorale tra Lennon e McCartney non c’era alcuna alchimia, il fatto che firmassero insieme tutte le canzoni che ognuno dei due scriveva in totale autonomia era solo business».

Le perplessità su alcuni contenuti sono anche evidenziate dalla parole dell’ex direttore della Ricordi Lucio Salvini:

«Il film su Battisti: a parte che Mussida paragona Mogol a John Lennon, quanti errori e superficialità, omissioni e false verità. Se apro bocca mi squalificano a vita!».

Ma andiamo avanti, perchè la stoccata maggiore alla trasmissione televisiva non avviene dal noto critico Aldo Grasso, ma dalla signora Grazia Letizia Veronese Battisti, qui le sue dure ma chiare parole:

«Eccomi qui. Sono passati 25 anni da quando Lucio Battisti non è più fra noi. Noto, caro Giulio, che non perdi occasione pubblica per spargere il tuo miele su Lucio, dichiarando di averlo amato tanto: io credo che tu abbia ragioni per amarlo molto di più adesso, visto che ancora oggi, dopo un quarto di secolo dalla sua morte, non ti riesce di separare il suo nome dal tuo».

A tal proposito mi ha sempre lasciato di stucco la dichiarazione di Mogol che sostiene sia stato lo stesso Battisti a dettargli in sogno il testo della canzone “L’Arcobaleno” scritta assieme a Gianni Bella e interpretata da Adriano Celentano.

Ma torniamo alle parole della signora Veronese Battisti:

«Ragionier – e già l’apposizione che usa la dice lunga – Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere. Noto anche che in queste occasioni non fai mai alcun cenno alle innumerevoli cause che hai intentato dopo la morte di Lucio: tre gradi di giudizio per una questione di confini, due gradi di giudizio per un risarcimento danni, per ‘perdita di chanche’: una causa che, visto l’esito, ha costretto in liquidazione le Edizioni Acqua Azzurra. Ed ecco ora, dopo sette anni dalla sentenza del 2016, una nuova identica causa, questa appena nata, ma ancora per ‘perdita di chanche’. Ti ricordo, fra parentesi, che sono ancora in attesa di una risposta alla lettera che ti ho scritto il 10 giugno del 2020, quando eri presidente effettivo della Siae. Sono passati tre anni e hai ritenuto di ignorare quella lettera ma, nel frattempo, hai continuato a produrre programmi che hanno al centro Lucio Battisti (che, consentimi il termine, è diventato il tuo passepartout)».

Probabile si riferisca al recente (e discutibile) tour che lo stesso Mogol ha fatto con Gianmarco Carroccia, “sosia” di Battisti, una sorta di Tale e quale show itinerante con il Carroccia alla voce e Mogol che spiegava, come fa spesso, il modo in cui sono nate le canzoni di quel periodo.

«Infine, per quanto riguarda la salute di Lucio e le cause della sua morte, ti chiedo gentilmente di lasciar perdere le tue infondate supposizioni e ogni altra illazione».

Qui la signora fa esplicito riferimento ad un passaggio dell’intervista in cui Mogol sostiene di aver fatto pervenire una lettera all’amico Lucio, quando lui era ricoverato presso l’ospedale San Paolo di Milano, a pochi giorni della sua prematura scomparsa e che leggendo la lettera, Battisti pianse per la commozione.

«Ti chiedo soltanto – continua – di rispettare la sua dignità di uomo, dopo avere tanto lusingato la sua figura di artista. A tal proposito, ti invito a non raccontare più la commovente storia della ‘lettera consegnata di nascosto a Lucio’, ora da un’infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato ‘professore’… Voglio precisare, una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è stato mai lasciato solo e che non ha mai pianto, tanto meno ricordando la vostra ‘amicizia’. Ti rammento che il vostro ‘sodalizio artistico’ si era interrotto nel lontano 1980. Sono passati ormai 43 anni, Giulio! Senza rancore. Grazia Letizia Veronese Battisti”.
Così si conclude la lettera che è rimbalzata sulle maggiori testate giornalistiche.

Non tarda ad arrivare, anche se in modo parziale, rispondendo a due punti in particolare, la risposta del diretto interessato. È così che Mogol risponde alla domanda del giornalista che gli chiede se abbia letto la lettera della signora Veronesi Battisti:

«No e preferisco non farlo. Ma sul contenuto sono stato informato. Sulle vertenze giudiziarie si sono espressi e si esprimeranno i magistrati. Ma non mi interessa replicare. Se non su un paio di particolari. Mi dispiace si possa anche soltanto immaginare che io mi sia inventato di aver fatto avere una lettera a Lucio nel periodo finale della sua malattia. Non so che motivo avrebbe potuto spingermi a raccontare una bugia. Tra l’altro fu un medico a rendere testimonianza della cosa parlandone con una giornalista. Poi apprendo – continua Mogol – che nella lettera mi si definisce paroliere».

Appare chiaro che la signora usi le apposizioni “ragioniere e paroliere” in maniera sarcastica, ma Mogol si concentra su questo punto e spiega che ha sempre considerato una forma di mancanza di rispetto l’uso del termine “paroliere” per chi scrive versi destinati alle canzoni, e continua dicendo:

«Lucio la pensava come me. Non l’ho fatto solo per la mia persona, ma per chiunque faccia o abbia fatto questa cosa. Paroliere è chi realizza lo schema delle parole crociate, cinque orizzontale tre lettere, sei verticale otto lettere. È come quando ad un giornalista si dà del giornalaio, è un modo spregiativo di valutare il lavoro di una persona. È una questione di principio».

E quando il giornalista gli chiede, per la “milionesima volta”, di spiegare quali furono le ragioni della rottura del fortunato sodalizio, Mogol continua a rispondere:

«Per la milionesima volta, non litigammo, non ci fu nulla di personale. Fu una questione economica. Io trovavo giusto che i diritti sulle canzoni fossero ripartiti in maniera paritaria tra noi, nonostante la legge dicesse un’altra cosa. Lui inizialmente sembrava d’accordo, invece andò a casa e cambiò idea e ci separammo. Tutto qui».

Questione chiusa? Certamente no, visto che va avanti da decenni, certo, dispiace leggere che canzoni che per molti sono state la colonna sonora della loro vita, per i diretti interessati siano oggetto da contendere nelle aule di tribunale.

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