Ho più volte scritto che l’Italia è il Paese dei premi, dei riconoscimenti, delle targhe, coppe e coppette a buon mercato. Tutta paccottiglia da ferramenta. Musicalmente parlando i premi che servono per lavorare si contano sulla punta delle dita.
Quelli più intelligenti sono quelli che consegnano un assegno o un bonifico. Ricordo che ai tempi del Figli di Bubba (1988 ) frequentavo spesso la casa di Mauro Pagani che di premi ne aveva vinti. Una volta aprii il suo frigorifero e scoprii che ci aveva nascosto un Telegatto. Lo voleva surgelare per non farlo vedere in casa. Un genio.
Altri invece mostravano i dischi d’oro o altra memorabilia in corridoio o sulla libreria del salotto. Roba di un certo cattivo gusto: Gondole in similoro, Vele, Statuette, Targhe da cartolibrai e altre amenità del genere. Sindrome da Oscar vissuta in cortile. Dicono che i premi promuovano gli artisti ma non è vero, è una balla grande come un tatuaggio di Bernardeschi. Il giorno dopo che hai vinto un Premio non se lo ricorda più nessuno, nemmeno chi lo ha ricevuto. Magari lo mette in bella vista a prendere polvere come un trofeo da caccia e morta lì perché se poi non ne arrivano altri la festa è finita.
La promozione dunque, come si fa? La via più sicura è spendere una montagna di denaro per comprarsi i like, le visualizzazioni e gonfiare un pubblico di fan che in realtà non hai. Tu chiamale se vuoi indicizzazioni. Tutto questo accade perché i vecchi parametri promozionali sono stati massacrati dalla rivoluzione digitale.
In epoca analogica un buon articolo o una recensione su un quotidiano poteva spingere il disco in classifica o aumentare le richieste per le esibizioni live. Così come i passaggi radiofonici. Tutto morto e sepolto in pochi anni. Oggi un passaggio in radio conta meno di un passaggio in macchina. Inoltre “noi” recensori, giornalisti, e infine critici musicali (categoria di cui mi onoro di non farne parte) ricevevamo dalla discografia una montagna di dischi ogni mese. Le cosiddette copie promozionali che si davano via come caramelle. Dentro c’era tutto: Fabrizio De Andrè e Raul Casadei, i Pink Floyd e i Cugini di Campagna.
I dischi che ci facevano cagare li vendevamo ai mercatini della Fiera di Senigallia a Milano per tirar su qualche lira. Qualche noto critico ne ha fatti di soldi vendendo dischi nuovi di zecca e mai ascoltati.
Nonostante lo tsunami digitale che ha decretato la fine di questo bel mondo io continuo a ricevere via mail proposte di recensioni, dischi autoprodotti e dischi di amici. Fa sempre piacere essere considerati anche se il più delle volte arrivano veri e propri pop spam, cioè robaccia imbarazzante, persino inascoltabile anche per l’orecchio più sfondato come il mio, ma qualcosa di interessante ogni tanto capita. Qualche ufficio stampa non ha ancora perso l’abitudine di inviarmi comunicati scritti in serie, diciamo pure alla cazzo di coniglio con udite udite il presave, vale a dire la prenotazione dell’ascolto di un singolo o di un album nel determinato giorno scelto dalla casa discografica.
Fenomeno arrogante della nuova generazione dei promoter discografici. Secondo loro io dovrei prenotare l’ascolto di un singolo di cui non me ne frega un accidente attendendo per dieci giorni il fatidico giorno in cui magari potresti ascoltare una canzone da discarica o da macero.
Se questi sono i nuovi sistemi promozionali addio e buonanotte ai suonatori. Così un po’ per provocazione, un po’ perché tanti continuano a inviarmi file e dischi fisici ho deciso di scrivere questa rubrica periodica: Il Trovarobe/rto consapevole del fatto che non servirà granchè in termini promozionali ma perlomeno farà sentire i giovani un po’ meno soli nel marasma digitale odierno.
I Kalevala hms
In questa prima rovistazione nella mia valigia digitale ho trovato il disco : If We Only had a Brain dei Kalevala hms, una band matta come un cavallo drogato. Una band anarchica che mischia Folk Metal, le atmosfere musicali dei film della Disney, il prog, i Jethro Tull e The Family. Roba da buttarcisi dentro legandosi un cavo d’acciaio alla vita per essere poi ripescati da un amico quando si arriva all’estasi lisergica. Intanto il nome. Occhio a non sbagliarvi se andate su youtube come ho fatto io.
Esistono dei Kalevala dell’est non so se russi, ucraini, georgiani o che. All’inizio penso che siano loro così mi imbatto in un video con lupi, cavalli, boschi da paura e barbari assortiti con elmi, mazze e braccioni pelosi. Poi salta fuori una sorta di strega con le corna di legno che sembra una Nina Hagen fulminata da una sedia elettrica. “Strano la voce solista è di un uomo e canta in inglese, questa sbraita in russo” mi dico.
Dopo un po’ Daniele Zoncheddu che non ha propriamente un cognome russo, dato che è sardo come un bambino battezzato con il Mirto, mi svela che entrambi le band, la sua e quella russa, sono praticamente contemporanee ma non si erano mai accorte di essere gemellate per anni. “La cantante mi ha risposto, complimenti nice name, così abbiamo aggiunto HMS”.
Intanto un po’ di storia che non guasta mai. Kalevala è un poema epico composto da Elias Lönnrot nella metà dell’Ottocento, sulla base di poemi e canti popolari della Finlandia. “Kalevala” significa letteralmente “Terra di Kaleva”, ossia la Finlandia: Kaleva è infatti il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica, ricordato sia in questo testo che nella saga estone del Kalevipoeg.
Il Kalevala è dunque l’epopea nazionale finlandese. Il 28 febbraio, in Finlandia, viene celebrato il Kalevalan Päivä (Giorno del Kalevala), il Giorno della Cultura Finlandese. Ora che la storia finlandese interessi una band mezza sarda ma che vive a Parma è già un fatto originale e la loro musica non poteva essere da meno. Sembra che il loro simbolo, in realtà un portafortuna sia un mattoncino. Pare che se lo portino dietro come il sacro Gral e lo infilino nella cassa della batteria per non perderlo.
La band inizialmente è di matrice metallara con un certo interesse per il folk soprattutto quello celtico. Il Folk Metal è cantato prevalentemente in inglese così la band si adegua anche se inserisce nel repertorio brani in francese e in italiano ispirandosi a De Andrè e Branduardi.
La band spopola in vari festival del nord Italia e in Europa: Scozia, Germania, Inghilterra e Svizzera. La formazione subisce vari cambi, così come la strumentazione, all’inizio la fisarmonica duetta con la chitarre elettriche ma poi subentrano flauto, viola e violino. Veniamo al disco, eterogeneo come sonorità ma completamente straniante come fantasia e atmosfere.
Se non c’entrasse un cazzo potrei dire che è un po’ Zappiano ma lo dico tanto per farlo sembrare strano. E dato che finalmente il loro comunicato stampa è scritto bene e si vede che non appartiene a una major deciso di copiarlo e incollarlo tanto lo fanno tutti ma io almeno a differenza degli altri, lo confesso. Eccovi le tracce.
Song to sing in case of armageddon nasconde una formula per far ricominciare l’universo in caso di distruzione totale, mentre Victory is for suckers è una apologia rock’n’roll del fallimento. Dumbo alla parata nera, ripescato dal classico dell’animazione Disney “Dumbo”, ha un testo italiano modificato in maniera radicale.
Mickey Finn è quello che ci vuole nel non sequitur delle nostre esistenze: un cocktail nato per stordire, segue Cyberkampf che guida l’ascolto lungo una disastrosa rivoluzione cibernetica fino al suo apocalittico epilogo.
Dopo la scanzonata titletrack If we only had a brain, tratta da “The wizard of Oz (1939)” (anche qui con un testo completamente stravolto), è il turno di Die Moorsoldaten, un brano scritto dai prigionieri in un campo di concentramento nazista e diffuso segretamente anche all’estero qui in una triplice versione in tedesco, francese e italiano, cantata insieme al “Coro dei malfattori”, ospite in vari brani dell’album. Root Radioed è un comunicato radio rivolto alle frange ribelli di un futuro distopico, mentre Medusa inneggia ai naufraghi di tutti i tempi. No cheese=Blue Cheese è un divertissement in stile ’80, seguito da un brano semistrumentale, For the old world.
La band ci ha abituati al recupero di gioielli della musica italiana, questa volta è il turno della folle e feroce Elettrochoc dei Matia Bazar.
Tra atmosfere d’Oltralpe e cori sontuosi, Les Peintres spedisce gli artisti nel cuore di una battaglia senza senso. Principessa, una cavalcata tra Morricone, metal e citazioni di Puccini porta dritta alla conclusione: Tribù, un brano in lingua italiana dal taglio epico che affronta il tema dei grandi movimenti migratori.
Bhè ragazzi c’è di tutto e di più. Un disco divertente e appassionante, suonato e registrato molto bene nonostante l’esiguo budget speso: 5000 euro. Roba che ai miei tempi quando producevo i dischi, si spendevano solo per un missaggio. Ma è soprattutto un disco diverso, aria nuova e idee a ogni traccia, voglia di sperimentare e osare, elogio della fantasia perché mettere insieme Disney e i campi di concentramento non è propriamente roba da Radio Italia o da Amici.
Quindi se una volta tanto volete uscire dalla melma pop e hip hip in cui navigate fatelo subito con l’ascolto di questo album.
Consiglio per l’uso?
Una bottiglia di Mirto a fianco, un buon impianto e un degno volume. Per almeno un giorno vi sentirete Finlandesi e non i soliti colonizzati americani. Per inciso la Finlandia è uno dei Paesi più evoluti al mondo. Sei ore di lavoro giornaliere ed è proibito dare compiti a casa, altrimenti a scuola che ci si va a fare se non per studiare? A casa invece è meglio ascoltare i Kalevala hms.
Alla prossima scoperta della mia valigia. Il Trovarobe-rto vi saluta.
Facebook Comments