Guardo l’ennesima puntata in TV di X Factor e vedo le grafiche che chiudono i blocchi. La X sembra un logo 3D della Marvel, le scritte sembrano prese dai trailer cinematografici dei supereroi “Fino all’ultimo scontro”, le musiche che accompagnano il tutto hanno effetti sonori da Dolby Surround.
Quando nei clip dei concorrenti marchiati da Banca Intesa, appaiono i ragazzi, le pose e gli atteggiamenti sono sempre enfatici, come a dire : “Siamo già pop star”, “Guarda come siamo fighi, lo siamo talmente che manco sorridiamo”. Si sa il sorriso stona a chi vuole tirarsela.
Insomma l’enfasi da mito, raggiunge la vetta e quindi non potendo superarsi comincia a scendere a valle, mica può rimanere lì imperturbabile per sempre.
Così, tutta ‘sta enfasi costruita da scenografie kolossal, ballerini ed effetti speciali che speciali non sono, dato che li abbiamo visti centinaia di volte, stacchetti da musica tensiva prima delle eliminazioni, i “trenta secondi da rito” come dice Cattelan, tutto sommato il più “umano” di tutti insieme alla Maionchi, dato che uno sorride e l’altra sforna parolacce a manetta, insomma tutta l’enfasi messa in scena comincia a partorire sbadigli.
Perché?
Alla base di tutto c’è scarsa cultura dello spettacolo, la mancanza di dinamica che è fondamentale in una piece teatrale o musicale o televisiva. Non c’è l’alternanza di pieni e di vuoti, di fermi improvvisi e di accelerazioni inaspettate. Questa è la dinamica musicale, ma oserei dire anche artistica più in generale.
Immaginatevi la facciata di una edificio sovrabbondante di volumi, di materia che si sovraccarica fino a nascondere la base su cui è appoggiata. Tutto esagerato, sovrabbondante, si annullano spazi e profondità. Poi immaginatevi una parete che presenta tra pieni e vuoti , spazi e profondità diverse dove i nostri occhi possono rincorrere giochi di luci e ombre, tra spessori, angolature, profondità e prospettive da scoprire a ogni sguardo.
Quale preferireste?
Così immaginatevi una musica con lo stesso ritmo uguale dall’inizio alla fine, stesse sonorità, stessa melodia a tormentone per 4 minuti, e magari anche le stesse parole ripetute ad libitum. Insomma una composizione uguale dal primo secondo all’ultimo.
Dù palle, direte voi.
Esatto!
Bene, la tv della prima serata da intrattenimento ormai è così ovunque.
Avanti un altro, esibizioni una in fila all’altra per tre ore con 15 ospiti a sera. Una tv che da tempo ha abolito il colpo di scena che nella storia dello spettacolo e del teatro si chiama così perché in quel preciso momento mostra qualcosa di inaspettato, un gesto, una parola, un movimento, un cambio di luci, un grido, un effetto che nessuno si aspetta perché rompe la liturgia di quello che stiamo vedendo.
Il colpo si scena oggi non arriva mai. La scansione degli eventi che si susseguono su un palco sono tutti stilisticamente uguali e ripetuti fino alla noia. Alla fine pur essendoci idee, si fa fatica a riconoscerle.
Eppure se ci pensiamo bene, la nostra memoria televisiva riguarda proprio i colpi di scena, le immagini che non ci aspettavamo e proprio per questo sono rimaste indelebili nella nostra memoria.
Qualche esempio per i meno giovani: Il disgusto di Carmelo Bene al Costanzo Show al Parioli rivolto alla platea. Il nudo integrale di Moana Pozzi che entra in scena a “Matrioska” di Antonio Ricci, come se indossasse un abito di alta moda ma invece è nuda come Dio l’ha fatta. Il Daniele Luttazzi a Barracuda che mangia un dolce al cioccolato che sembra una cacca nel piatto (simbologia concettualmente deliziosa), la pancia finta della Bertè incinta a Sanremo, il Paolo Villaggio presentatore che trattava male il pubblico.
E qui siamo nel gioco della trasgressione o della provocazione, ma nella storia della televisione sono passate anche altre cose non necessariamente provocatorie, tipo i silenzi di Celentano tra un non monologo e l’altro, le voci fuori campo trasmesse in tv nei programmi di Renzo Arbore, i montaggi satirici e visionari di Enrico Ghezzi nei suoi Fuori Orario, la conduzione invisibile della Gialappa’s (idea assolutamente geniale), il bacio infinito di Benigni sul palco di Sanremo… insomma i veri momenti di spettacolo che oggi non si vedono più, perché non esiste più la scrittura, il copione, l’ideazione.
Eppure eccoli lì i nuovi direttori artistici, i creativi, i coreografi osannati e celebrati, poi vai sul tubo con il pc e vedi cose che hai dimenticato: “i colpi di scena”.
Peccato siano passati alla storia però.
Oggi invece tutto si consuma alla velocità della luce e l’indomani non ti ricordi più niente di quello che hai visto o sentito. Tutto come da “NON” copione, perché il copione non c’è, ci sono solo le scalette. L’enfasi da grande show non c’è più, o meglio appare ma non recita più il suo ruolo, quindi non arriva.
E se la gente avesse voglia di qualche sorpresa? E se cominciasse a distrarsi tra una telefonata e uno sbadiglio davanti alla tv? E se avesse voglia di essere finalmente sorpresa aldilà della gabbia da format in cui è rinchiusa?
I segnali sembrano arrivare.
Basta notare gli ascolti dell’audience e analizzare le curve d’ascolto. Dopo le 23.30 la curva appare sempre più orizzontale, statica non dinamica. Cosa vuol dire in termini di marketing? Che il pubblico risulta passivo, non interagisce, non cambia canale nemmeno durante la pubblicità tabellare.
La spiegazione è una sola. Sta dormendo. La soglia di attenzione cala inesorabilmente.
Per forza direte voi. Il target delle generaliste è sempre più anziano, logico che si assopisca davanti al piccolo schermo. Nemmeno gli effetti “speciali” riescono a svegliarlo, anzi aiutano al contrario a renderlo distante, distratto, addormentato. E più l’enfasi da grande show va in scena e più cala la soglia di attenzione, perché tutto resta, con il passare dei minuti, inesorabilmente uguale a se stesso.
C’era un vecchio film che fece epoca, si chiamava “Non si uccidono così anche i cavalli?”. Raccontava una maratona di ballo in cui vinceva la coppia che resisteva all’esaurimento, fino alla fine. La coppia che non stramazzava a terra ma rimaneva in piedi con le caviglia gonfie e i crampi alle gambe, ma che continuava a ballare. Film meraviglioso.
Il grande show generalista è come quella gara di ballo massacrante. E oltretutto non si vince niente. Siamo trattati come cavalli, chiusi nel recinto delimitato dai confini del nostro divano. Peccato che vorremmo essere rapiti, trascinati in una corsa al galoppo come tanti cavalli selvaggi, invece per la tv siamo solo dei ronzini invecchiati.
Fine della corsa. Attendiamo autori e registi che aprano il recinto verso l’orizzonte.
Buona serata.
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