Il gap tra artisti e critici risale alla notte dei tempi.
Già nell’antichità si possono rintracciare documenti anticipatori della critica musicale moderna, redatti da filosofi, poeti, letterati quali Plutaco, Erodoto e Sofocle i più illustri critici ante litteram conosciuti.
Il confronto non è mai stato facile, soprattutto quando il critico ha preteso in qualche modo, di gemellarsi in termini di importanza e di popolarità, all’artista o addirittura di sostituirlo.
Così in epoca recente, sono nate e prosperate figure professionali inedite, quale quella dell’“opinionista”, a metà tra il commentatore e il giornalista che in qualche modo sono germogliate negli anni ’70, con l’avvento della musica pop e il successo dei cantautori che in qualche modo nell’attenzione generale, hanno sostituito i poeti e dove la critica musicale ha avuto un peso importante.
Nuove riviste musicali sono spuntate come funghi dopo settimane di pioggia. Tra queste cito le più influenti: Re Nudo, Muzak e soprattutto Gong che spaziava tra rock, prog , jazz e musica contemporanea. La generazione di quei critici musicali ha poi scritto molti libri per varie case editrici quali Arcana ad esempio.
Insomma il critico musicale in quegli anni usciva dall’ombra diventando così popolare al punto da essere citato nei testi delle canzoni come ad esempio il critico Riccardo Bertoncelli nell’Avvelenata di Francesco Guccini:
“Ci sarà sempre un prete o un Bertoncelli a sparare cazzate”.
Riccardo Bertoncelli e Francesco GucciniLa querelle è tornata attuale grazie a un confronto pubblico spontaneo ma assai vivace per non dire aggressivo, avvenuto la settimana scorsa tra Eugenio Finardi e il critico Riccardo Bertoncelli in un evento dedicato a Demetrio Stratos presso la sala eventi della Borsa di Milano.
Tra il pubblico qualcuno ha ripreso tutto con il telefonino in una diretta facebook che ha rimbalzato tra una condivisione e l’altra, procurando numerose visualizzazioni.
Sono volati stracci e parole pesanti. Inaspettatamente ha cominciato Finardi. “Dovresti vergognarti per tutto quello che hai scritto in quegli anni. Sulla nostra musica hai scritto un sacco di puttanate con un atteggiamento da testa di c….” ha inveito l’arrabbiato Eugenio puntando il dito verso lo stupito Bertoncelli che ovviamente è stato costretto a replicare alzandosi dalla platea e raggiungendo il microfono sul palco.
Così si è ritornato di colpo al clima degli anni ’70, dove la Vis polemica tra i giovani era così diffusa da rivolgersi persino contro loro stessi. Si era così contestatori che ci si auto contestava con una certa compiacenza.
Finardi non è mai stato uno che le manda a dire, una volta lo vidi coinvolto in una rissa al Titan Club di Roma con il giornalista Massimo Bassoli, ma il suo atteggiamento era proprio quello da rockstar ribelle che si sentiva danneggiato.
Sono tipiche esasperazioni da anni ’70, come ha dichiarato lo stesso Bertoncelli, dove molti, forse troppi si sentivano leader, professori, giudici e sapientoni. Gli artisti però avevano valide argomentazioni per difendersi e reagire, dato che la stampa e i media tradizionali non davano loro lo spazio che si meritavano.
La realtà è che quegli articoli segnarono un modello di critica per anni e in modo inequivocabile. Un modello quasi anticipatorio per i vari “leoncini da tastiera” di oggi.
Nel 1976, uscì un libro che inasprì ancor di più il complicato rapporto tra artisti e critici. Molti dei primi si incazzarono non poco, anche perché il libro non citava nemmeno l’autore o gli autori, quindi gli artisti non sapevano esattamente con chi prendersela, anche se tutti erano certi che l’autore fosse proprio Bertoncelli.
Il titolo era: “Libro bianco sul pop in Italia” (cronaca di una colonizzazione musicale in un paese mediterraneo) edito da Arcana editrice.
Nella quarta di copertina si scrive:
“Un’analisi obiettiva su un fenomeno di enorme interesse culturale e commerciale… una molotov contro il quieto conformismo di una generazione che mescola Marx e Dylan, lotta di classe e marijuana, che vuole la pace e la chiama love… come i suoi gendarmi americani”.
Nelle ultime pagine, in una speciale appendice, sono pubblicate alcune schedine segnaletiche, recensioni-bonsai sui gruppi e cantautori italiani in qualche modo inquadrabili nel movimento pop.
Condite con note politiche provenienti da un fantomatico “archivio segreto dell’ Esercito Rivoluzionario per la liberazione del Pop, gruppo clandestino di lotta anticolonialista”.
Nonostante il maldestro tentativo di ironia (che allora era assai nascosta) il libro in realtà è una invettiva vera e propria nei confronti degli artisti che sembra scritta da vetusti ultraconservatori.
Fabrizio De Andrè infatti, viene descritto così:
“Dall’aria triste e meditabonda, ha svolto negli anni passati il ruolo di cantautore impegnato ma non troppo. Le migliori esecuzioni dei suoi pezzi si ascoltano sulle spiagge e sui monti, quando un chitarrista che conosce due accordi vuol consolare l’amico di una sbronza finita male”
A proposito di Francesco De Gregori:
“Costui compone pezzi che sono un concentrato di nullità, abbelliti da testi crociani ma non di eguale capacità critica, pseudointellettuali al ridicolo e terribilmente simulati… Le sue idee, per quanto ci è dato a sapere, sono false e mistificatorie”.
E ancora sugli Area:
“Difficile concentrare l’ottusità di questo gruppo in poche righe. Se il termine ambiguo non fosse ambiguo lo sceglieremmo a proposito di questi figuri che amano il pubblico tanto per farlo irritare e portarlo all’esasperazione”.
E sulla PFM:
“Come cinque innocui musicisti possano divenire cinque uomini d’affari che lo ha dimostrato la PFM dopo la pedissequa imitazione dei modelli inglesi e ‘Storia di un minuto'”.
Critiche, articoli, recensioni “politicizzate” di questo genere contribuirono a favorire i noti “processi” politici live causati da quattro “compagni” imbecilli nei confronti dei cantautori quali Francesco De Gregori, avvenuto al Palalido di Milano e Fabrizio De Andrè al Palaleur di Roma nel ’78 durante la tournè con la PFM.
Ora si potrebbe anche rileggere quegli anni ’70 con un certo disincanto e autocritica, ma ovvio che quegli episodi hanno lasciato il segno, soprattutto in un mondo come quello d’oggi dove la critica ufficiale non esiste più, se non addirittura i giornalisti, per cui il ricordo della classe dei critici va inevitabilmente indietro nel tempo.
Critici narcisisti e artisti permalosi?
Forse, ma il problema in qualche modo resta. L’esperienza degli anni ’70 dovrebbe farci riflettere e aiutarci a superare la classica e tradizionale barriera esistente tra le due differenti categorie.
Chi scrive potrebbe anche utilizzare la musica per sviluppare approfondimenti interessanti bel oltre il conformismo della “recensione obbligata”, del “voto”, della “nota” da scuola elementare o della polemica e del giudizio gratuito nei confronti di chi la musica la fa, atta solo ad alimentare la propria “firma”.
Voglio dire, serve ancora scrivere della cosiddetta musica di meeeerda? Vogliamo illuderci di convertire i fan della trap e i bimbiminkia o i loro genitori? Come potrebbe essere possibile dato che non leggono nemmeno?
Io sinceramente sono per un rumorosissimo silenzio.
Da radice situazionista attendo che “i morti seppelliscano i loro morti”, che “il cadavere della musica assassinata passi sulla superficie del fiume”, piuttosto che contribuire a darle visibilità o attenzione.
Inutile alzare il tiro e sparare contro chi ha già esalato l’ultimo respiro da classifica. Occupiamoci del bello.
E sinceramente invito gli stessi artisti a fare altrettanto.
Disertate rivistacce e giornaletti da passatempo a un euro. Fate che non parlino di voi tramite un comunicato stampa di poche righe del Vs ufficio stampa. Il vostro mestiere è comunicare, lo fate con la musica e con le parole, quindi sceglietevi gli interlocutori adatti, non c’è bisogno di apparire ovunque, di parlare dentro qualsiasi microfono che sia a tiro, perché cosi come la musica di mm… esiste anche l’informazione di mm…
C’ è bisogno di aggregarci tutti insieme, in una visione complessiva attorno alla qualità, alla musica di qualità e alla critica di qualità, lasciando perdere il passato se non come rilettura storica per evitare di cadere negli stessi conflitti di ieri, e concentraci sul presente.
Qualità artistica e qualità giornalistica per la divulgazione del bello. Ce la possiamo fare.
Facebook Comments