NiggaRadio: ecco un gruppo per il quale vale assolutamente la pena risvegliarsi dal proprio torpore e di abbandonare lo stato di assuefazione alla musica. Abbiamo ascoltato e riascoltato il loro nuovo lavoro “Santi Diavuli e brava genti“, terza fatica dopo i precedenti “Na Storia” del 2014 e “FolkBluesTechno’n’Roll…e altre musiche primitive per domani” del 2016 (che avevamo recensito qui).
La band catanese conferma ancora una volta la loro formazione: Andrea Soggiu ai synth, alle elettroniche e al basso), Daniele Grasso alle chitarre, oltre che autore dei brani, Peppe Scalia alla batteria e Vanessa Pappalardo alla voce.
Ascoltando gli undici brani di questo nuovo album si ha la senzazione che i Niggaradio siano stati capaci di rinnovarsi trovando un linguaggio musicale ancora più universale,il tutto senza tradire nessuna delle loro caratteristiche. Quella ricerca rigorosa di un perfetto equilibrio tra suoni naturali e suoni elettronici, che da sempre è la loro cifra stilistica, raggiunge in “Santi Diavuli e brava genti” livelli elevatissimi, per certi versi inaspettati, risultando ancora più efficaci grazie ad processo ormai consolidato di erosione di qualsiasi elemento superfluo.
Davvero difficile catalogare questo disco in un preciso genere: seppur possiamo riconoscere uno ad uno i suoi mille ingredienti (rock, blues, elettronici, pop, talvonta cantautorali) la ricetta finale non presenta un gusto prevalente. E’ un continuo fluire ipnotico e viscerale, un magma sonoro ricco di soluzioni fertili e affascinanti.
Notevoli i testi, anche loro esito di una sintesi che punta ad ottenere il massimo peso specifico. Le tematiche sono importanti: si parla dei flussi migratori, dell’importanza degli affetti familiari, della necessità di trovare la propria storia e il propio posto nel mondo, dell’ormai dilagante e malcelato razzismo. Tutto, ancora una volta, espresso attraverso un dialetto siciliano capace di farsi suono, puro significasnte, in grado di travalicare la Sicili per farsi lingua universale, comprensibile anche fuori dai confini territoriali e nazionali.
Il disco è stato prodotto, registrato e missato da Daniele Grasso presso The Cave Studio di Catania per Dcave records. Il mastering è di Giovanni Versari presso La Maestà Studio.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Daniele Grasso, ideatore di questo progetto e autore dei brani dei Niggaradio, con il quale è nata una chiacchierata splendida e lunga, durante la quale abbiamo che parlato del disco, di produzione, di scrittura, del bene e del male della musica attuale. Spesso travalicando piacevolmente i ruoli di intervistato e intervistato. Vi consiglio vivamente la lettura.
TRACKLIST di “Santi Diavuli e brava genti” – NiggaRadio
- Unni mi femmu
- Cammarera
- U diavulu
- ‘Nto me lettu
- Santi in paradiso
- Electromoaning
- A Me Strada
- A processioni da Madonna
- Cu si ‘nnamura
- I me stori
- To mama
“Santi Diavuli e brava genti” è disponibile sulle principali piattaforme digitali: iTunes – Spotify – Soundcloud
INTERVISTA a Daniele Grasso dei NiggaRadio
Ciao Daniele, grazie per questa intervista. Ho ascoltato il vostro ultimo lavoro e non ti nascondo che, forte dei dischi precedenti, mi sono approcciato con grandi aspettative. Tutte pienamente soddisfatte.
Ti ringrazio. Che ne pensi?
Mi piace moltissimo. La ricerca di un equilibrio perfetto tra suoni naturali e suoni artificiali, vostra caratteristica da sempre, qui si esprime ai massimi livelli. Ma la novità è che questa sintesi si applica anche ai testi e agli arrangiamenti: più snelli ma non per questo meno efficaci. Su tutto, ancora una volta, questo vostro dialetto capace di travalicare la Sicilia: una lingua scarnificata, che abbandona la sua connotazione territoriale per farsi lingua universale e diventare “suono”.
Sono contento che ti piaccia. Quello che dici sull’uso che facciamo del dialetto siciliano è vero: abbiamo avuto modo di suonare tante volte per un pubblico di stranieri, intendo gente che non parla nemmeno l’italiano, e riscontrare che la nostra musica e i nostri temi arrivano. Siamo sempre sorpresi quando questo avviene. Penso sia proprio la voce che si fa strumento e che emoziona, ottenendo lo stesso effetto che farebbero le parole se comprese nel loro senso.
Partiamo proprio dai testi. Ascoltandovi sembra che stiate cantando in inglese e non in catanese. Come ottenete questa universalità? Scrivete in inglese, traducendo poi rispettando la fonetica?
Tu sai che sono l’autore dei brani?
Certo.
Questo è l’effetto delle mie due anime: mia mamma è di New York mentre papà è siciliano. Fino a poco meno di vent’anni fa non parlavo il dialetto. Ho vissuto negli USA e sono tornato stabilmente in Sicilia nel 2000: prima passavo gran parte del mio tempo fra il nord Europa e il nord degli Stati Uniti.
Quando sono arrivato in Italia mia sorella maggiore, una figura importantissima nella mia vita e che purtroppo non c’è più, ha caratterizzato tutto il mio nodo di lavorare. Musicalmente avevo l’attitudine a rifare esattamente le cose che ascoltavo e lei che mi diceva sempre “A che serve?”. Ed effettivamente quelle sue parole ora sono le mie: a che serve che si faccia una cosa nello stesso modo di qualcun altro?
Contemporaneamente il dialetto è diventata la mia vera lingua: per quanto l’italiano poteva essere forbito e interessante mi appariva come una lingua artificiale mentre nel dialetto ritrovato la mia esatta natura. Ho riscoperto quindi il dialetto. Probabilmente il fatto che l’inglese sia una lingua essenziale, meno articolata rispetto all’italiano, ha fatto sì che fosse naturale per me questa sintesi, che ricercassi quel suono “inglese” legato alla mia adolescenza nel dialetto, che fondessi insieme i suoni e la immediatezza del mondo anglosassone con l’efficacia del nostro dialetto. Penso sia questo il motivo principale di questa sintesi. I nostri brani sono cantabili in tutte e due le lingue. Ti faccio un esempio dove questo esperimento mi sembrava perfettamente riuscito: ascolta “A matina” del nostro primo disco, prova a cantarla in inglese e scoprirai che funziona benissimo. Ma ti assicuro che è stata scritta direttamente in dialetto.
Se ho capito bene questa “doppia anima” è completamente interiorizzata, per cui la tua di scrittura è assolutamente naturale e priva di qualsiasi ricerca strategica a tavolino.
Si. Chiaramente questo è il mio modo di scrivere, orientato alla ricerca di un certo suono. Ma il merito è anche, e soprattutto, di una splendida interprete quale è Vanessa Pappalardo. Ma non è stato subito facile: all’inizio, intendo prima del nostro disco di esordio, c’era qualche resistenza, perché ci si chiedeva se un progetto del genere potesse funzionare. Invece ha funzionato.
È sorprendente per me come riusciate a far questo. Il dialetto siciliano è ancora fortemente legato al mondo della riproposta folk e quando ascolto altre esperienze cantautorali (penso ad alcune produzioni palermitane) o nel macromondo del rap (ho sentito alcuni brani Trap in dialetto), l’esito finale mi appare forzato e innaturale, come se il dialetto non avesse attinenza con quei mondi musicali. Questo non vale nel vostro caso, e questo è un valore davvero notevole.
Ti ringrazio. È un’osservazione che ci viene fatta spesso. Chi si avvicina adesso al nostro progetto con grazie a questo terzo disco, tipicamente ci dice “mi aspettavo che faceste folk e invece mi ritrovo in questo caleidoscopio di suoni, con questa lingua che fa da collante.” Per me la parte vocale e la scrittura della melodia con questa lingua è l’asse portante del progetto, al contrario di quanto che si possa pensare: parto sempre da una melodia in grado di reggere da sola, capace di trasmettere le emozioni principali del brano. Poi pensiamo a supportarla con vari rimedi e varie soluzioni.
Qual è la risposta del pubblico ai vostri live? Prevale la difficoltà di esibirvi in dialetto siciliano oppure l’immediatezza della vostra personale variante di “inglese”?
La prima volta che abbiamo capito che questo progetto poteva funzionare fu a Verona. Dopo l’uscita del primo disco arrivavano le prime recensioni positive e cominciamo a suonare in giro. Ci ritrovammo quindi a suonare a Verona, in quella regione nota ormai soprattutto per essere la patria della Lega.
Metti insieme le due cose: dei siciliani, tra l’altro estremamente militanti, che cantano in siciliano davanti ad un pubblico di veneti. Invece ricordo che fu un concerto bellissimo. Ci ritroviamo sul palco del “Il Giardino”, poco fuori Verona. È un club fantastico, se ci fossero cinquanta di questi club in Italia la musica sarebbe differente. Sono degli innamorati della musica che si tassano per poter ospitare i concerti che vogliono, senza interesse per le birre vendute o per “il seguito”. Da lì sono passati molti nomi importanti del rock e del prog italiano, eventi che chiaramente non pagherebbero mai con gli incassi. Quando siamo saliti sul palco tutti ci guardavano un po’ così. Noi abbiamo attaccato col nostro dialetto e ed abbiamo trovato una sintonia incredibile con il pubblico. A fine concerto noi ci guardavamo pensando che sicuramente il pubblico non aveva capito nulla dei testi, ma lo stimolo del live e dell’esecuzione portato dal vivo, col patos che cerchiamo di mettere, è stato in grado di trasmettere quelle stesse emozioni.
Io dico ai miei compagni di viaggio questa cosa qua: suonare dal vivo è un rito di cui l’artista è l’officiante. Se non metti l’enfasi necessaria, reale e non finta, il messaggio non arriva alla gente: ma devi essere tu, artista, a crederci per primo. Posso dirti che questo pathos, questo messaggio, siamo riusciti a trasmetterlo anche in altre occasioni apparentemente contrastanti tra loro, come il Cous-Cous Fest oppure in alcuni festival blues. Proprio in questi ultimi abbiamo incontrati musicisti americani che alla fine delle nostre esibizioni venivano a domandarci “Ma che state cantando? Com’è possibile che esista un dialetto siciliano così musicale?” Credo che se nel tempo lasceremo un contributo alla musica è proprio quello che tu sottolineavi, un dialetto “musicalmente contemporaneo”.
Io vi ho visto in concerto all’Auditorium Rai di Palermo in occasione della presentazione di “FolkBluesTechno’n’Roll…”. Ricordo perfettamente la vostra resa live, carica di energia e capace di coinvolgere sia emotivamente che fisicamente. Posso confermare che la sacralità del vostro “salire sul palco” si percepisce tutta.
Ma la musica è questo. Per carità, non vorrei essere frainteso: io non ho nulla contro chi fa musica per intrattenimento, ci mancherebbe. È una cosa che rispetto perché è una possibilità di lavoro. Però credo la Musica meriti questa sacralità nella performance e nella scrittura: se la perdi, il musicista riduci tutto a una pura esecuzione, magari ben fatta, ma non in grado di trasmettere emozioni.
Provo a reinterpretare il tuo pensiero: se sul palco non metti te stesso, con un coinvolgimento profondamente interiore, togli credibilità alla performance senza investire emotivamente nel momento che stai vivendo, lasciando semplicemente scorrere.
Certo. Faccio questo mestiere da decenni e posso testimoniare, però, che questa mia attitudine ha un prezzo, ti consuma, sottraendoti molte energie interiori. Metto questa attitudine anche nel mio lavoro come produttore, e chi ha lavorato con me lo ha riconosciuto come un valore. Io non invidio i musicisti che riescono ad essere distaccati, a far finta di essere emozionati sul palco. Quando i Niggaradio si esibiscono, soprattutto quando facciamo performance brevi, ci resta dentro un carico di adrenalina che non abbiamo potuto liberare completamente. Delle volte non si dorme la notte successiva perché volevamo raccontare emotivamente molto di più ed invece hai tenuto dentro. Secondo me chi interpreta la musica in questo modo fa un favore a sé stesso, nonostante paghi un prezzo. Spesso dico che la musica è quella cosa che sta fra il dito e la corda. Non è quando tocchi la corda ma è quel qualcosa che accade un attimo prima. È l’energia nervosa, è l’intenzione che metti e che poi si manifesta in un suono.
Stavo un attimo pensando al ruolo del produttore: spesso in sala si crea nervosismo ed ansia con la conseguenza che si rischia di sbagliare ogni nota.
Perché spesso si lavora con un’attitudine sbagliata. Io ho avuto la fortuna di essere prodotto tante volte e consiglio sempre a chi produce di fare l’esperienza di essere prodotto. Io ne ho fatto una cinquantina come turnista, come musicista, come ingegnere del suono, e conosco le dinamiche che si creano.
Ti faccio un esempio: ho lavorato due volte con Greg Dulli e ricordo, durante le registrazioni, di alcune performance che a mio parere potevano essere migliori e delle quali lui invece diceva “Great!!!”. Ho dovuto ammettere che aveva ragione lui: aveva un’incredibile abilità nel cogliere la riuscita emotiva di quanto si era suonato. Spesso noi italiani privilegiamo la riuscita estetica e tecnica a quella emotiva, sbagliando. Personalmente quando lavoro come produttore non faccio eseguire più di tre o quattro take al cantante, dalle quali ricavo il composite. Se diventano di più lui si sfianca annullando tutto il carico emozionale che ricerco nelle mie produzioni. Probabilmente alla diciottesima take l’esecuzione sarebbe tecnicamente perfetta, ma l’anima è andata ormai via.
Mi trovi d’accordo su questa modalità, seppur inconsueta.
Non consueta in Italia. Invece all’estero trovi momenti meravigliosi nella produzione proprio per la differente attitudine. Considera che spesso all’estero la “filiera lavorativa”, uso una brutta espressione, la scegli proprio per le caratteristiche emozionali e per la storia che hanno: la scelta dello studio, del produttore, dei tecnici è legata a questo carico emotivo che portano con se.
È per questo che in tante produzioni straniere trovi alcuni errori, vuoi di esecuzione o di missaggio, che seppur fanno inorridire i puristi spesso arricchiscono il brano svelano dell’artista molto più di un prodotto impeccabile?
Esattamente, ed è una cosa per cui mi sbatto. Se tu frequentassi i forum di professionisti della produzione musicale italiana resteresti basito da quante stupidaggini si dicono e quanto si è distanti dall’essenza del disco di cui stanno parlando: giudizio del tipo “qui però è saturo”, “qui è lievemente fuori tempo” sono davvero fuori luogo. Non capisco questa ricerca di perfezione sul tempo e sull’intonazione: io per scelta non allineo i tempi e non uso autotune: nel mio studio è vietato farlo. Eppure in giro se ne fa un larghissimo abuso.
Beh, riferendomi all’autotune, spesso manca l’artista e allora corriamo ai ripari.
Questa è una deriva alla Andy Warhol: tutti sono convinti di meritare i loro cinque minuti di celebrità. L’atteggiamento tipico è diventato il seguente: non occorre che io sia il massimo, tanto ci sarà uno con il computer che farà tutto il resto e che metterà tutto quello che io non metto.
Ma così si nasconde il proprio corpo. Poi quando il corpo si svela sul palco…
Assolutamente sì, emergono i problemi. Ma questo è un problema ormai generalizzato e che ha in sé tante delle motivazioni di del perché molte cose non funzionano nella nostra musica di questo periodo.
Ritorniamo ai Niggaradio. Con “Santi diavuli e brava genti” state raccogliendo recensioni positive anche da parte della stampa non di settore e da non addetti ai lavori, tipicamente rappresentativi di un pubblico più ampio e di un ascoltatore meno preparato. Cosa ne pensate di questa accoglienza?
Lo direi meglio: rappresentativo di ascoltatori non avvezzi a tutte le pieghe della scena musicale “altra”. Questo ci ha fa molto piacere perché significa che lo scopo principale del nostro fare musica, quella di comunicare e non di fare puro intrattenimento, arriva anche a persone che in apparenza sembra meno interessata. Ti ripeto, nel mio caso probabilmente sono un “talebano” per la musica, ma io credo fortemente che il veicolo musicale sia l’elemento culturale con maggiori possibilità di diffusione popolare. Non perché leggere un libro, ad esempio, sia impossibile ma perché mi rendo conto della situazione reale e di come la letteratura, che è una delle cose che io più amo in assoluto, sia in questo momento storico bypassata dalle nuove generazioni.
Purtroppo questo sembra un dato di fatto, del resto la letteratura richiede un grado di partecipazione che questa società sembra non saper più garantire. In questo la musica può arrivare ancora, magari perché puoi ritrovartela nelle orecchie anche come sottofondo, o raggiungerla per caso, e poi ritrovarti a gustarla.
Ma proprio per questo la musica ha un dovere ed una responsabilità maggiore. Il fatto che per ora si produca roba inutile, davvero robaccia, maschera la possibilità di fare emergere produzioni bellissime a causa del rischio di essere coperti dalla massa di cose. Invece è culturalmente necessario far emergere progetti di qualità. Tornando a noi, questa sintesi che tu hai notato nasce proprio dal pensiero di essere essenziali per arrivare alle persone. Noi chiediamo al pubblico di essere ascoltati, ma il dovere di essere estremamente concreti nella comunicazione e tutto nostro.
Immagino che porterete in giro dal vivo questo vostro nuovo lavoro. Se non sbaglio state pensando ad una serie di Show Case.
Questa volta la strategia è quella di essere pazienti e non partire subito alla carica. Il disco è uscito a fine gennaio, ora siamo a marzo ed è passato già un mese e mezzo. D’accordo con il nostro ufficio stampa A Buzz Supreme e con il nostro management Pentagram abbiamo deciso di fare degli show case mirati in alcune città. Inizieremo con Milano e Roma, e a seguire arriveranno Bologna, Napoli e Torino dove pensiamo di chiudere. Con l’avvicinarsi dell’estate ci sono invece delle richieste interessanti legate alle buone recensioni, lavoro che secondo me continua ad essere estremamente prezioso per gli addetti ai lavori. Noi siamo estremamente sereni e pensiamo di aver realizzato un disco capace di tenere insieme tutte le nostre anime e siamo contenti che stia arrivando alle persone.
Ecco, se dovessi rispondere alla domanda “di che cosa parla il disco?” trovo molto adatta l’espressione “Human Being”: si parla dell’essere umano, dei pregi e dei difetti, senza pretendere di avere in mano tutte le verità. Se pensi a come il disco inizia e come finisce, e cioè ai brani “Unni mi femmu” e “To Mama” sembrano due mondi completamente distanti ed invece sono due sfaccettature dell’Essere Umano. Nel primo ci sono le masse di persone che si spostano, io e le mie famiglie: i miei antenati si sono spostati, e in definitiva ho riscoperto che laddove mi fermo per mangiare, per vivere, per morire quella sarà casa mia, ben al di là dei nazionalismi. Il secondo brano è un tema estremamente importante per me: all’inizio dell’estate scorsa una mia nipotina molto giovane ha incontrato una delle grandi difficoltà della vita, una di quelle malattie che ti si attacca e non andrà più via. Però lei è molto forte, come molto forte è la sua stessa famiglia: e si scopre che possiamo vivere ugualmente una vita grandiosa. Ma non è una esaltazione della mia famiglia, ma della forza dell’amore delle persone che ti stanno accanto. Per me la necessità di trovare il luogo dove vivere e la riscoperta dell’amore delle persone care rappresentano la porta di ingresso e di uscita dell’essere umano, e quindi del racconto di questo disco.
Tu fai spesso riferimento ad immagini iconiche della tradizione siciliana. È una scelta di coerenza con il linguaggio o sono davvero elementi della tua cultura ripresi dal tuo vissuto?
Essere spaccato in due famiglie d’origine, in due tradizioni, in due mondi è una ricchezza enorme. Avere parenti cresciuti a migliaia di chilometri da te e che quando li raggiungi ti mostra il loro mondo è eccezionale. Io da ragazzino ero profondamente innamorato degli States, ed in fondo è anche comprensibile: il rocl&roll, il cinema. Però passavo le vacanze dai nonni siciliani e quando ho incominciato a mettere a fuoco il lascito dei miei nonni siciliani ho scoperto che aveva una valenza enorme che si era sedimentata più fortemente di quanto credessi. C’è un brano nel disco che si chiama “Ccu si nnamura”, che cita esattamente un detto di mia nonna: lei diceva sempre nel guardare la bellezza delle persone che “ccù si nnamura di capiddi e denti un si nnamura i nenti”. Quando ho pensato di scrivere un brano sul valore della bellezza interiore contrapposta alla bellezza estetica imperante avevo mille concetti da esprimere e cercavo qualcosa che condensasse tutto questo: quando mi sono ricordato della frase di mia nonna ho pensato che fosse quella giusta. Il mondo dei detti popolari è davvero una ricchezza. Come ti dicevo resto ancora legato al mondo anglosassone, che ho conosciuto direttamente e non per sentito dire, ma la sento come una interessante spezia rispetto l’ossatura reale, il backbone, che invece trovi nell’espressione questa terra, la Sicilia, che nonostante tutte le contraddizioni ha una forza culturale e storica, plurimillenaria, che sento fortemente permeare nel mio modo di raccontare e scrivere.
Ma posso farti io una domanda? Qual è il nostro brano preferito da te?
Sono tanti. “Unni mi femmu” mi ipnotizza, così come “U diavulu”. Po “Ccu si nnamura” che hai citato. Ma se devo sceglierne uno ti direi “Electromoaning”. Non l’ho inquadrata subito, probabilmente per il suo sviluppo armonico meno consueto e per la sua scrittura atipica.
Questo è il brano con il miglior tasso qualitativo in genere: emozionale puro legato ad una costruzione armonica strana. È uno dei miei brani preferiti. “Electromoaning” condensa due cose: moaning è il gemito, il “murmuriamento”, quel “mmm” che si usa in molte canzoni. Ho pensato a questa cosa osservando le persone dolenti che incontro ogni giorno, soprattutto quelle che sono arrivate in città dai paesi che, nonostante la difficoltà, probabilmente forse non voleva lasciare. Dall’altro lato c’è la storia che racconta Vanessa: “ma mamma talking… insieme a ttia cu c’è?”, e poi quando ci si accorge che è uno straniero la risposta è “ah un’altra volta, sono sempre qua”. Ecco, la controparte dell’essere dolenti e il diventare razzista, ma non apertamente: “io non sono razzista”, ma in fondo lo si è. Ho lavorato molto affinché il testo fosse musicale, ed è un po’ di anni che studiare le influenze ritmiche nel linguaggio degli afroamericani. In questo brano ho messo insieme parole in inglese e altre in dialetto. Ma la storia si chiude con l’esperienza di chi dice “guarda, sono uguali a noi, siamo noi stessi, identici, non c’è nessuna differenza, stesse mani, stessi capelli, stessa fame, la stessa fame atavica che abbiamo covato per secoli”. Questi temi e queste esigenze sonore sono diventate un tutt’uno, le musica e le parole sono diventate un unico corpo. È un brano a cui tengo molto.
E allora ho fatto bene a citarlo.
Si, ti ringrazio molto di questo.
Forse non c’entra: mi fai pensare a quando qualche anno fa sono stato a Tunisi con l’Università di Palermo, partecipavo come conferenziere ad un seminario il cui tema era “El funduq”, il fondaco inteso sia in senso architettonico che culturale, centro dell’incontro commerciale e umano, elemento caratteristico di tutta l’area del mediterraneo. In quello stesso periodo Giuseppe Tornatore girava a Tunisi il film “Baaria” in un’area interamente ricostruita come set. Mi colpì molto una sua frase, a me riferita ovviamente: nel commentare le comparse tunisine diceva “è incredibile: hanno lo stesso colore e la stessa espressione nei volti dei bagheresi del dopo guerra”. Credo sia questo il tema di Electromoaning: se togliamo gli abiti e le convinzioni che ci siamo cuciti addosso, punti all’essenza, riscopriamo che abbiamo davvero la stessa pelle: “loro” sono semplicemente quello che eravamo noi qualche anno fa.
Hai colto perfettamente il senso. Hanno la nostra stessa fame nei volti. Hai presente Robert Capa, quel fotografo americano che ha seguito la seconda guerra mondiale? C’è quella bellissima fotografia del marine americano piegato in due che parla con un nostro contadino è alto la metà di lui.
Conosco benissimo quella foto.
Spesso guardo i ragazzi di oggi, spesso palestrati, convinti che davvero oggi sia un altro mondo. Ma sono passati solo 70 anni che nella storia del mondo è meno di uno sputo, è un nulla di nulla. Ecco: questi siamo noi. Forse lo stiamo scordando e ci stiamo illudendo di essere alti e bellissimi, ma è tutto artificiale. In realtà siamo quelli. Ed il fatto di essere al confine, tutta l’Italia e soprattutto noi siciliani, ci mette in una situazione particolare di borderline e se stai attento riesci a capire molte più cose. Se riusciamo a guardare con attenzione questo sud vediamo che quello che noi eravamo un attimo fa adesso lo sono loro. In fondo il nostro disco parla proprio di questo.
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