Indie, mainstream, pop: cosa c’è da capire sulle definizioni, sui generi, sulle logiche di mercato e sulle “mescolanze” di mondi musicali.
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La direttrice di questo magazine ha lanciato una domanda in un post Facebook – “Oggi, sempre di più, si comincia ad ascoltare Indie contaminato con il più profondo Mainstream: mischiare i due modi, apparentemente lontani tra loro, secondo voi è cosa buona e giusta?“, – domanda per le quali da brava antropologa non ho delle vere risposte senza un’indagine empirica. Ma posso applicare grossolanamente qualche metodo per mettere in evidenza lo scarto tra i termini che usiamo nell’uso comune e quello che ci dicono le nostre orecchie ascoltando quello che c’è sulla scena musicale odierna. Operazione ambiziosa? Un po’ si, forse non arriveremo al bandolo della matassa, ma da qualche parte bisogna pur iniziare.
Tutto nasce dall’individuazione di copri estranei sui palchi di Sanremo (Lo Stato Sociale), dei talent show (Manuel Agnelli, Levante), di nomi che l’uno accanto all’altro cozzano nelle liste di collaborazioni (Michielin con Cosmo, Calcutta e Paradiso, Elisa e Paradiso e altri casi). Il cervello va in corto circuito: non avevamo detto «pop», «indie», «mainstream», perché quella divisione rassicurante a un certo punto non tiene più?
Definizioni.
Indie: indipendente dall’industria discografica, ovvero non prodotto dalle major. Definizione che sembra mettere in evidenza una presa di posizione rispetto al mercato.
Mainstream: ciò che risulta come «il più ascoltato, diffuso, passato in radio». Definizione secondo il risultato, delle scelte di chi la musica la diffonde e la ricezione di questa stessa musica che viene passata, in termini di numeri.
Pop: per il grande pubblico, si riferisce a come suona la canzone. Definizione secondo il prodotto, il risultato musicale.
Non sono “generi musicali”, perché in solo 1 di questi 3 casi si fa riferimento a come suona la musica, negli altri due a delle logiche di mercato, una secondo il posizionamento a priori, una secondo il risultato.
Come categorie, dice la logica, non sono comparabili. Di rimando non è sconcertante che l’una non escluda l’altra, che uno stesso artista possa essere sia indie che pop che mainstream. I professionisti della comunicazione hanno tentato di mettere della logica aristotelica facendo l’interesse delle case discografiche laddove non c’era, dicendoci “attenzione, lui è indie, non devi ascoltarlo se ti piace il pop“. Ma la gente – a me piace crederlo – riflette molto meno quando ha a che fare con la dose di musica che gli serve nel quotidiano. “Prima non succedeva“, d’accordo, prima non esisteva internet e le cose per fortuna cambiano.
Metto in ballo le case discografiche in questo ragionamento perché non ci scordiamo che le “etichette” appunto, intese come generi musicali, sono una costruzione dell’industria discografica e più in generale dell’industria culturale affiché il consumatore identifichi un genere, scovi artisti simili a quello che gli è piaciuto e faccia più acquisti “orizzontali”, sia in termini di dischi che il giubbotto di pelle se vuoi far vedere che ascolti il rock, le scarpe a tennis ultimo grido se vuoi brandire ai quattro venti la tua identità hip hop.
Insomma, lo sentite che quei termini ci dicono poco della musica in sé: indie come? indie rock o…? Inutile rompersi il capo troppo con le parole, soprattutto se ci sono imposte dall’alto.
I musicisti si incontrano, scambiano, o almeno, dovrebbero farlo. In un mondo giusto, tutto ciò non ci insospettirebbe. Quello che sarebbe più interessante capire, chiedendolo ai diretti interessati ma che non vi diranno mai com’è andata, è: “l’indie bussa alle porte del pop da major o viceversa sono gli artisti indie che sono avvicinati dalle major?”
In termini di numeri, è il mainstream che si è abbassato sulle grandezze numeriche di vendite del mercato indipendente, ecco perché entrano in relazione e/o competizione.
In termini di quello che ci dicono le nostre orecchie, qual è la differenza tra un artista indie e un artista mainstream? Il primo ha meno preparazione tecnica, per incapacità o meno di prende le distanze dal, fino a ieri, dominante virtuosismo vocale da talent show, scrive per sé testi che non sono banali e non si costruiscono solo sui soliti clichés, ma su delle immagini “poetiche” originali, sforando a volte nell’originalità fine a stessa (anche quello pare faccia sensazione). Gli autori dell’indie hanno letto un po’ più di libri degli autori pop. Mettiamola così, è anche una questione di istruzione e di distinzione: al firmacopie de Lo Stato Sociale, le sedicenni, probabilmente liceali, sapevano a memoria tutti i testi e li cantavano. Probabilmente trovano banali i testi di un interprete pop tipo uscito dai talent show, probabilmente non gli interessa la tecnicità musicale, invece ricercano dei testi che parlino un po’ come parlano o vorrebbero parlare (o postare) loro.
Basta guardarli, questi strani artisti indie: sono più adulti dei cantanti da talent. Hanno e scrivono con delle sfumature di malinconia o depressione un po’ meno mascherate per paura di non piacere, a volte sono anche cantautori impegnati, nel senso che almeno non evitano i riferimenti allo stato di cose italiano attuale per paura di crearsi delle inimicizie. E hanno una “riflessività” sulla visione che di loro hanno il pubblico e gli addetti ai lavori, nel senso che si vedono bene riflessi nello specchio degli occhi degli altri e giocano sull’immagine che gli viene rinviata.
Siamo nel mezzo di una rivoluzione dal basso, un rifiuto del linguaggio degli autori pop piatto, uniformato a come si parla in televisione? Questa è l’ipotesi più rosea. Forse è solo un altro meccanismo di distinzione superficiale, alle parole non ci badano troppo, ma il look hipster andrà pure arredato dalle scelte musicali “giuste”. Sei trash se ascolti i cantanti dei talent, ma sei figo se ascolti un gruppo indie dal nome dadaista, perché te lo sei andato a cercare tu su Spotify.
Ah le etichette, ah i social network, ah la difficile costruzione dell’identità (anche a 30 anni), ah la reputazione.
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