E’ sempre stato difficile catalogare gli Arcade Fire dentro uno specifica denominazione che identifichi il loro tipo di musica: in tutti i loro dischi, differenti l’un l’altro per stile e sonorità, hanno sempre giocato con i generi anche se con l’ultimo, “Reflektor” uscito nel 2013, la virata verso un suono più elettronico è stata decisa, pur con altre influenze come quelle date dalla musica caraibica.
Con “Everything Now” si cambia ancora e si va verso un suono più pulito e più dance dato dalla collaborazione, in sede di arrangiamenti e produzione, con Thomas Bangalter dei Daft Punk e Steve Mackey dei Pulp, a cui si aggiungono anche Geoff Barrow dei Portishead ed il fidato Markus Dravs, presente anche in lavori precedenti della band come produttore.
Prima dell’uscita dell’album è stato possibile comprendere subito questo cambiamento, dato che sono stati pubblicati ben quattro singoli, a partire dal brano che da il nome al disco, “Everything Now” appunto, posto all’inizio ed alla fine con una versione dal minutaggio inferiore ed arrangiamento orchestrale. La fine che riporta all’inizio come un cerchio che si chiude, figura che viene ripresa anche nell’anagramma rappresentativo della canzone (ognuna ne ha uno), in questo caso un globo terrestre stilizzato: forse il desiderio di far conoscere la propria musica a più persone possibili, un rivolgersi a tutti quelli che stanno intorno che si tradurrà anche con il tipo di palco che verrà montato al centro delle arene nel prossimo tour in Nord America in autunno.
La title track parla di come si ha la possibilità di conoscere tutti gli eventi che accadono nel mondo in modo immediato, di essere a conoscenza di ogni cosa ma che alla fine la mole di informazioni risulta usata per altri scopi e quindi arriva falsificata (And it reminds me, we’ve got everything now / We turn the speakers up till they break / ‘Cause every time you smile it’s a fake!”) ed ha un incedere che ricorda molto gli ABBA con la sezione di piano e la melodia molto orecchiabili.
Il basso, il “clap clap” e la ritmica di “Signs Of Life” riportano sempre agli anni ’70 e descrivono una nottata passata in un club ma anche la futilità di cercare un significato in un mondo senza logica. Questi primi due brani sono sì efficaci ma in essi si percepisce poco il “tocco Arcade Fire” in modo da dare loro una certa originalità.
Cosa che non succede nella successiva “Creature Comfort“, tra i migliori pezzi dell’album, in cui si fondono in modo egregio il nuovo sound di quest’album con melodie e parti vocali che rimandano alle magnifiche atmosfere di “Funeral”, di una “Neighborhood #3 (Power Out)” ad esempio; lo sguardo resta sempre sulla contemporaneità, il suicidio, i motivi che si cercano per fare in modo di venire apprezzati (“Some girls hate their bodies / Stand in the mirror and wait for the feedback / Saying God, make me famous / If you can’t just make it painless“).
“Peter Pan” e “Chemistry” sono canzoni molto leggere, dalle atmosfere reggae, che arrivano quasi come una pausa dopo l’energia data dai brani precedenti e scorrono senza emozionare.
Cerniera con la seconda parte del disco è la traccia gemella “Infinite Content / Infinite_Content” composta da una versione più rock ed un’altra più country: lo scarno testo gioca con le espressioni “infinite content” (contenuto infinito) ed “We’re Infinitely content” (siamo illimitatamente soddisfatti), molto probabilmente un altro riferimento ai comportamenti della società attuale nell’era di Internet ed alla continua possibilità di entrare in possesso di beni di consumo ed informazioni.
Arriviamo alla traccia Régine-centrica “Electric Blue“, in cui troviamo la polistrumentista di origini haitiane cimentarsi con note altissime ed inusuali per lei: il brano è efficace, pur con un testo abbastanza semplice ed un ritornello “nanananaa” che un po’ stona col resto.
Atmosfere più intimiste e cupe sono quelle di “Good God Damn” che portano ai pezzi conclusivi “Put Your Money on Me” e “We Don’t Deserve Love“. La prima segue le sonorità dance-pop di altri brani, con Win Butler che parte con un falsetto per poi continuare con un timbro dalle note più basse, accompagnato dalla moglie come seconda voce e da un basso anche qui piuttosto presente; la seconda è una ballad perfetta per la parte finale di un disco, ha un ritornello che entra in testa molto facilmente con una melodia richiama un qualche tipo di speranza, in contrasto però col testo: “Looking down at all the wreckage / When we met you’d never expect this / And you say, maybe we don’t deserve love“.
In conclusione
La sensazione è che “Everything Now” non diventerà sicuramente uno degli album memorabili della band canadese, questo non significa però doverlo bocciare in toto: c’è qualche canzone dimenticabile, ma anche qualcun’altra di buona fattura, che testimonia come Win Butler e soci siano rimasti ottimi compositori nonostante questo nuovo cambiamento nelle sonorità.
Resta solo un po’ di perplessità essendo meno frequenti in questo disco il pathos, la maestria nel rendere alcune canzoni quasi degli inni, la ricercatezza di arrangiamenti e testi che hanno caratterizzato gli ottimi quattro lavori pubblicati nei precedenti 13 anni. Quando si viene abituati così bene si nota in modo più evidente se il livello si abbassa, che è un po’ la “sfortuna” (avercela questa sfortuna) che possono incontrare le band da cui ci si aspetta sempre l’eccellenza.
Tracklist:
01 Everything_Now (continued)
02 Everything Now
03 Signs Of Life
04 Creature Comfort
05 Peter Pan
06 Chemistry
07 Infinite Content
08 Infinite_Content
09 Electric Blue
10 Good God Damn
11 Put Your Money On Me
12 We Don’t Deserve Love
13 Everything Now (continued)
Facebook Comments