Effetto collaterale: suicidio.
Le donne di Atene non hanno sogni ma solo presagi: è forse per questo che Vicky Karayiannis Cornell, di origine greca, e moglie di Chris Cornell, sentiva già l’odore della testa del suo uomo, passata oltre, in un cerchio di corda, nell’ultimo abbraccio. Dentro l’unico davvero “per sempre”.
Lui cantava: «Volevo solo divertirmi un po’, udire gli angeli marciare, udirli marciare» (parole del testo “In my time of dying”, brano dei Led Zeppelin cantato da Cornell come ultimo bis dell’ultimo concerto a Detroit, ndr) e intanto la morte se ne accorgeva.
Eppure lui, il suo Angelo lo aveva al fianco anche quando erano lontani. Vicky era sempre con lui. Era Angelo, leonessa, madre, moglie: la sua musa perfetta. Il suo canto di guerra, il suo inno all’amore, la sua medicina, contro la confusione mentale della depressione. Ma non è bastata per la salvazione. Non sono bastati i tre figli che lui amava.
Chris Cornell aveva nel passo le ali di una divinità greca: la morte lo aveva già ammonito avvinghiando amici e colleghi ma lui l’aveva sempre vista di schiena e non immaginava davvero che gli avrebbe sospeso la vita per la vulnerabilità del collo, perché non sapeva si potesse morire per una breve caduta. Ma nemmeno per l’impiccamento dell’anima. O per la chimica. E così, interrotto dal suo peso mortale mancando l’abbraccio con Dio, ha celebrato nell’aria la sospensione infinita del suo estremo canto.
Lui intonava: «Incontriamoci, Gesù, incontriamoci, incontriamoci a mezz’aria. Se le mie ali dovessero tradirmi, Signore per favore vienimi incontro con un altro paio» (sempre parole del testo “In my time of dying” dei Led Zeppelin, ultimo bis a Detroit, ndr), e intanto la morte, incapsulata nel bianco, gli offriva le sue.
Sarebbe bastato un semplice avvertimento: Vicky Karayiannis lo sa bene che suo marito non voleva involarsi. Sarebbe bastato fermare quelle pastiglie di troppo. Mentre il cuore di lei già sentiva la pena, lentamente la morte scendeva nell’Ativan (nome di un ansiolitico, ndr) ad avvelenare per sempre quel giorno, impadronendosi dei muscoli, delle vene, della volontà del suo uomo, durante l’ultimo concerto. Schiudendo le ali di quel volo tossico.
È nell’ultimo fiato, quello per la sua involontaria o forse autentica preghiera funeraria l’invito a non piangere alla sua morte ma a riportare a casa il corpo sì che la morte possa essere serena (sempre parole del testo “In my time of dying”, ndr).
Un saluto ai followers su Twitter, prima del concerto, dall’esterno del Teatro: «Detroit finally back to Rock City!!!!» e un altro dal palco, poco prima del compimento fatale: «Mi dispiace per la prossima città» e resta il dubbio che fosse un omaggio speciale per la bellezza di quel finale, di quel luogo. Oppure un semplice gesto d’amore offerto a ogni pubblico di ogni città. Comunque irripetibile ormai.
O l’illuminazione di un cancello per la via delle stelle.
Chissà se lo sapeva che il doppio motto di Detroit è proprio Speramus Meliora and Resurget Cineribus (trad. dal latino: Speriamo nelle cose migliori e che risorgano dalle ceneri)? E lì in quella Detroit è rimasto sospeso, nell’attesa di sorgere nuovo nel Giardino di un eterno suono, nell’amore per Vicky, per i figli, ai quali non avrebbe mai fatto male togliendosi la vita intenzionalmente (parole della moglie nel comunicato ufficiale della famiglia dopo la morte dell’artista, ndr), nell’amore per la musica, per i suoi fans.
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