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RECENSIONE Libro di Mario Bonanno: È vero che il giorno sapeva di sporco Riascoltando “Disoccupate le strade dai sogni” di Claudio Lolli

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di Athos Enrile

Commentare un libro dove si parla di terzi pone sempre qualche problema di equilibrio, a maggior ragione se questo “terzo” è un artista e il focus del contenitore è un album, musiche e liriche ben precise, che per alcuni hanno significati fondamentali, calati in una precisa contestualizzazione, per altri – magari quelli anagraficamente più fortunati – possono rappresentare qualcosa di “leggero”, solo trame accattivanti alimentate da poesie e messaggi. Certo, parlare solo di reazione istintiva al cospetto dell’opera di Claudio Lolli potrebbe sembrare blasfemo, ma l’arte contemporanea non cerca la bellezza, piuttosto la verità, e mi pare del tutto normale intenerirsi ascoltando “Michel” – dall’album Aspettando Godot, – al solo approccio, fatto di un arpeggio impareggiabile ed una voce che intona: “Ti ricordi, Michel dei nostri pantaloni corti…”: giuro, mi basta questo per tornare indietro a momenti che hanno significati del tutto personali, sicuramente lontani dal pensiero che portò al momento creativo, in quel lontano 1972.

Ma la necessità di equilibrio a cui accennavo obbliga a pensare se occorra scrivere di Claudio Lolli e della sua opera o privilegiare la rilettura di Disoccupate le strade dai sogni – disco rilasciato nel 1977 – da parte di Bonanno.

Proverò a fare entrambe le cose, introducendo però i miei ricordi personali relativi ad un periodo dove la posizione geografica del singolo determinava esperienze molto diverse tra loro, e quello che accadeva a Bologna – è questa la scena – era percepito in modo differente da chi “girava attorno”, con un sistema di informazione che amplificava o minimizzava la portata degli eventi in funzione dell’interesse del momento.

È il 1977, ho 21 anni e mi trovo casualmente a Milano, una città “non mia”, anche se la “mia” provincia, Savona, è reduce dalla bombe che scoppiano a ripetizione, mentre noi giovani facciamo la ronda notturna nelle nostre scuole. Il tram su cui viaggio penetra nel corpo della città sino a che un muro ci ferma. Le saracinesche calano rapidamente, i passeggeri scendono da un mezzo che non ha più meta e si allontanano a gran velocità, in uno stato misto tra paura e curiosità. E il muro si avvicina, fatto di eschimi, attrezzi manuali, copricapo, mentre un altro muro si contrappone, anche questo in divisa, blu. Mi fermo qui… è un’immagine che a distanza di 40 anni non mi abbandona mai, nonostante la sua episodicità, e immagino quali solchi possano essere stati scavati da chi viveva le esperienze dall’interno, nel quotidiano.

Claudio Lolli nasce con un dono, un talento che capita ogni tanto, perché qualcuno distribuisce a casaccio…

È un poeta, un musicista, un cantastorie, e impiega la sua arte per compilare un diario, per raccontare dal di dentro una storia, la storia, senza aver alcuna voglia/necessità/velleità di diventare un protagonista, né di mettere in mostra il piglio intellettuale. Sono tutti protagonisti quelli che vivono quel particolare momento storico in alcune città molto precise, dove la politica significa trovare alternative ad un sistema insoddisfacente e dove la ribellione non è una moda, sino a che gli ideali di base sfociano nella violenza arrivando al limite del degrado personale (alcune testimonianze video relative alle manifestazioni del Parco Lambro feriscono profondamente). Ma Lolli è attore principale suo malgrado, perché attraverso le sue creazioni rende un servizio alla storia, fotografa il momento e lo rende immortale, prerogativa questa di chi fa il suo mestiere, anche se nel suo caso l’oggettività può essere influenzata solamente dalla percezione – che è del tutto personale – e da nessun altro condizionamento esterno.

Disoccupate le strade dai sogni” arriva a distanza di un anno da quel capolavoro che è “Ho visto anche degli zingari felici”, per me entusiasmante anche dal punto di vista musicale. Anche in questo Lolli si differisce dai suoi colleghi coevi, perché alcune delle sue trame, unitamente alla pulizia e alla caratterizzazione vocale, potrebbero colpire anche con liriche meno profonde, e forse anche in loro assenza.

Lo racconta Bonanno che, arrivati a pagina 63, propone un modo fantastico di fruire del suo lavoro: una dopo l’altra arrivano le canzoni dell’album, e per ogni brano esiste il commento di Claudio Lolli, pensieri di oggi guardando al passato, didascalie che permettono di decodificare ciò che spesso resta intrappolato tra le righe. La tentazione è forte, basta il canale giusto il clic appropriato e parte “Alba Meccanica”… “L’alba si inventa una ruota a Torino…”. Lo ascolto mentre giro le pagine.

E si rivive un’epoca ormai sepolta.

Dice Claudio Lolli a proposito del disco: “Come vendite il disco andò benino. All’inizio diede un po’ di spaesamento. Venne giudicato difficile, oscuro, troppo intellettualistico, strano. E’ stato recuperato dal tempo. Oggi lo vedo come un disco abitato dalla malinconia dei timidi. Ci sento dentro qualcosa di tragico (come può essere tragico assistere da un angolo di strada alla fine di qualcosa che ami), ma di una tragicità che ha ancora una sua appartenenza, una sua tenerezza, una sua insolenza, quasi d’amore. Queste sono le cose che sento scorrere dentro questo disco, cose che magari sentivo anche prima, ma in modo meno chiaro, meno lucido di adesso”.

Nell’opera di Bonanno troviamo la completezza, i pensieri di Gigi Marinoni e del poeta Nanni Balestrini, le splendide illustrazioni fotografiche di Enzo Eric Toccaceli, le interviste, tutta la discografia, le voci dell’epoca… una documentazione che niente ha a che fare con l’arte della realizzazione biografica, ma invoglia alla conoscenza – per chi non ha vissuto quei momenti – e stimola la memoria di chi era in qualche modo presente.

Ma credo ci sia qualcosa di più.

Davanti alla rappresentazione dell’arte – musica, pittura, scultura… – la reazione del “passante per caso” è sempre istintiva, e ciò che influisce ha sempre a che fare con l’emotività, con l’empatia che nasce spontanea, così come la repulsione o, ancora peggio, l’indifferenza. Mario Bonanno ci aiuta a guarda la cornice, il contorno, e quindi ci invita col suo lavoro allo sforzo intellettuale, a riflettere su ciò che è ormai invisibile, a contemplare l’assenza perché attraverso la sua comprensione il godimento non è più prerogativa dei sensi ma dell’intelletto.

La “parola” da lui usata ha un grande peso – “Finchè sono nella tua bocca, sei il signore delle tue parole. Quando escono diventi il loro servo” (citazione ebraica) -, e Bonanno dosa il suo verbo, tra il forbito e l’accessibile, conscio della forza dell’esposizione e del fatto che il contenuto conti davvero poco sull’efficacia del messaggio proposto.

Arrivato a pagina 93 trovo il sunto, la filosofia, l’idea che più mi affascina quando mi appresto a leggere un libro, qualunque sia l’argomento: “La parola è un grande sovrano, che con un corpo piccolissimo e invisibile compie imprese massimamente divine: sa calmare la paura, eliminare il dolore, suscitare la gioia, sollevare la pietà”. (Gorgia da Lentini).

“Disoccupate le strade dai sogni” è la “celebrazione di una fine”(Lolli), una chiosa drammatica, tremendamente attualizzabile nel nostro nuovo mondo, un luogo e un tempo dove anche i sogni, a volte, sono fuori dalla portata dei nostri giovani, un periodo della vita in cui un tempo era viva la speranza che sì, con un po’ di impegno e di condivisione, qualcosa sarebbe potuto cambiare.

Un libro che soddisfa, coinvolge, incuriosisce e promuove l’azione e l’interazione.

Mario Bonanno
Autore: Mario Bonanno
Editore: Stampa Alternativa
Collana: Grande sconcerto
Data di Pubblicazione: Marzo 2017
Pagine: 96

 

 

 

 

Disoccupate le strade dai sogni

Mario Bonanno
Claudio Lolli – Disoccupate le strade dai sogni (1977) – Album Completo


MARIO BONANNO

Scrive saggi sui cantautori italiani. Per Stampa Alternativa ha pubblicato: Che mi dici di Stefano Rosso? Fenomenologia di un cantautore rimosso”; “Rosso è il colore dell’amore. Intorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli”; “Io se fossi Dio. L’apocalisse secondo Gaber”;  “La musica è finita. Quello che resta della canzone d’autore”.

 

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