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lunedì, Settembre 9, 2024

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SANREMO ANCORA QUI? SANREMO UN PO’ INUTILI?

di Roberto Manfredi

Sanremo si, ancora lui. C’era bisogno dell’ennesimo articolo su Sanremo? Sinceramente no, ma nella vita accade di occuparsi anche di cose futili, quindi eccoci qui a parlare della più grande anomalia planetaria, che quest’anno compie ben sessantasei anni e li dimostra tutti.

Mi sono chiesto: “Ma cosa si può scrivere sul Festival che non sia già stato scritto e pubblicato?”. Qual è il suo mistero non svelato? Potrebbe dunque entrare nella top ten dei misteri, come le statue dell’isola di Pasqua, Stonehenge e i cerchi di grano? Indubbiamente no.

Su Sanremo sono stati scritti volumi, enciclopedie e tesi di laurea (Pausini). Credo di non averli letti tutti ma il Festival è dentro il nostro DNA da quando è nato, quindi lo conosciamo più del nostro fegato.

Sanremo

Certo nella sua storia, ha rappresentato spesso lo “specchio dei tempi”, il ritratto di molte generazioni, i vizi e i difetti degli italiani, dal mammismo di Luciano Taioli ai capelloni beat, dagli stranieri che storpiavano l’italiano fino a farlo diventare una sorta di grammelot (Gene Pitney) fino alla follia demenziale di Elio E Le Storie Tese.

Tutto passava attraverso le canzoni, soprattutto i testi. Impossibile non ricordare lo sciopero del sesso di coppia di “Chi non lavora non fa l’amore” e la “Vita Spericolata” delle rock star di Vasco. Ma da qualche decennio il Festival non è più contemporaneo, rappresenta solo gli sponsor, gli anchorman di turno e gli ospiti internazionali come Gorbaciov o Mike Tyson che con la musica e le canzoni c’entrano come il coniglio con le cozze.

Non esiste nemmeno più il business dei discografici, dato che i dischi si vendono meno dei gratta e vinci. Basta confrontare le vendite dei dischi della precedente edizione. Nessun artista ha superato le ventimila copie vendute.

Sanremo

Gli Stadio, che peraltro hanno vinto, ne hanno vendute diciannovemila. Noemi non è arrivata a diecimila. Non è un caso che la major discografica più forte, la Sony, quest’anno è presente con undici artisti, tanto da meritarsi l’appellativo del Festival di SanSony. Per arrivare a un disco d’oro di dischi bisogna quindi pubblicarne undici, mica uno solo.

Se poi uno si toglie lo sfizio di analizzare i picchi di ascolto televisivi di qualche edizione passata, ecco che i cantanti ne sono irrimediabilmente esclusi. I picchi si registrano sulle interviste alle star internazionali, così come sulle performance dei comici di turno come ad esempio il Crozza-Berlusconi, o addirittura sui momenti estemporanei, come l’aspirante suicida di Baudo la farfallina di Belèn, i raid sul palco di lavoratori, cassaintegrati, disoccupati, etc.

Sanremo

Si evince quindi che la canzone, paradossalmente, serve solo come siparietto tra altri intrattenimenti, compresi quelli estemporanei.

Quindi perché scrivere sulle canzoni, quando dopo appena tre settimane non si ricordano più? Posso quindi solo scrivere di esperienze personali passate all’Ariston. In quel cinema-teatro ligure ci sono passato quattro volte, tre come autore televisivo (Sanremo Rock ) e una addirittura come artista big.

Ebbene si, è capitato anche a me di cantare al Festival. Correva l’anno 1988 e Lucio Salvini, ex direttore e Ad della Fonit Cetra, si innamorò di una band di pazzi che formai per “Lupo Solitario”, un format di Antonio Ricci. Ci chiamavamo “I Figli di Bubba” ed eravamo un’accozzaglia di amici e personaggi come Franz di Cioccio, Mauro Pagani, Sergio Vastano, Enzo Braschi, Roberto Gatti, Alberto Tonti e il sottoscritto. Praticamente un terzo di PFM, un terzo di Drive In, un terzo dell’Unità e dell’Espresso. Ricordo che anche Mara Maionchi ci mise il suo zampino per portaci sul palco dell’Ariston.

Noi ci andammo praticamente in vacanza, a prendere per i fondelli i cantanti big che ci credevano veramente, quelli che prima di salire sul palco gli tremavano le gambe perché sapevano di giocarsi una carriera o nel migliore dei casi, una stagione. Noi invece salimmo sul palco con le valigie, tanto per dimostrare che eravamo lì di passaggio. Cantammo “Nella valle dei Timbales” il cui testo è assolutamente d’attualità ancora oggi e arrivammo tredicesimi. L’album vendette quasi quindicimila copie, un lusso oggi.

Sanremo
I FIGLI DI BUBBA: NELLA VALLE DEI TIMBALES [FESTIVAL DI SANREMO 1988]

Ho ricordi assai divertenti. Come ad esempio quello che arrivi da sconosciuto e dopo quindici minuti in hotel sei già una star, perché i tuoi manifesti sono affissi nella città da un mese. In hotel ogni tanto qualcuno bussa alla tua porta per portarti una serie infinita di omaggi locali, dai fiori ai cioccolatini. Un signore mi portò persino una confezione di pesto. Io gli dissi : “Ma il pesto non è di Albenga”? Lui non gradì ma mi chiese comunque l’autografo per sua figlia.

Durante la finale, decidemmo di cambiare due parole nel testo della canzone, in barba al regolamento. Inserimmo un paio di “vaffanculo” tanto per gradire. Il giorno dopo Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della Sera chiese al patròn Ravera in conferenza stampa: “Perché non squalificate i Figli di Bubba, così abbiamo una notizia da pubblicare?”. Domanda inutile, dato che il Festival era già finito. Nemmeno lui conosceva il regolamento evidentemente.

Sanremo

Durante la settimana al Festival ho fatto più interviste che in tutta la mia vita. Ho parlato a un’infinità di radio, a giornalisti (persino esteri), sono stato obbligato a posare per centinaia di scatti fotografici, dalla copertina di Tv Sorrisi e Canzoni, quella con il famigerato cavallo verde del Totip, che era talmente nervoso per i flash, da depositare una cagata immane nello studio del fotografo, in mezzo a noi cantanti.

Insomma un bel giochino, diventi una star tuo malgrado e se non hai prove o interviste da fare, vai in albergo e sei costretto a staccare il telefono per riposare un po’. Poi ti capita di fare un salto al Casinò alle slot machine e incontri Giampiero Galeazzi che sta lì fisso davanti alle macchinette. A Sanremo ti capita di veder circolare qualche Ferrari, che non sono dei cantanti ma di qualche “pappone” imboscato. Insomma bei ricordi, futili quanto autentici.

A volte ho pensato che il Festival sia in realtà un’ allucinazione collettiva, un virus pandemico immaginario, una mostruosa psicosi di massa, un gigantesco ologramma miliardario. Insomma, ho pensato che potesse essere di tutto, tranne che un festival di canzoni. E ho detto tutto.
Buona pessima visione, se ce la fate a guardarlo ancora.

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