Tempo fa, a seguito di una dichiarazione di Confalonieri, avevo scritto questa analisi a proposito di certi comportamenti delle multinazionali nel nostro paese. Credo possa essere interessante per capire certi meccanismi, sopratutto alla luce della notizia della megamulta di 13 miliardi Euro che la UE ha imposto, nei giorni scorsi, alla Apple, per tasse non versate all’Irlanda, anche se la Apple e l’Irlanda sostengono che non c’è stato nessun reato visto che l’azienda di Cupertino ha siglato, a suo tempo, un accordo fiscale con l’Irlanda, accordo che ha una validità di 37 anni. E in effetti sia il governo Irlandese che la Apple hanno fatto congiuntamente ricorso contro la decisione dell’UE.
Tim Cook, Amministratore delegato della Apple ha dichiarato:
“Siamo soggetti a un’aliquota in Irlanda del 12,5%, abbiamo pagato in tasse 400 milioni di dollari nel 2014. Crediamo di essere il maggiore contribuente. L’aliquota allo 0,005% che Apple è accusata di avere pagato è un numero falso. Non ho idea da dove venga quel numero. Questa è la verità: in quell’anno abbiamo pagato all’Irlanda 400 milioni e ciò era basato su un’aliquota fissata per legge al 12,5%. Consideriamo il team irlandese dell’azienda come di prima classe. Fa un lavoro incredibile per Apple e andiamo avanti con gli investimenti pianificati“
Questa la mia analisi:
Prendo spunto da una dichiarazione di noto manager italiano, Fedele Confalonieri, per una riflessione su un fenomeno piuttosto irritante che riguarda diverse multinazionali che, in un modo o nell’altro, drenano favolosi introiti nel nostro paese senza colpo ferire a livello fiscale. In sostanza incassano, non pagano le tasse e fanno ciao con la manina.
Ho conosciuto Confalonieri. Non è un politico, il suo mestiere non è parlare. E’ un manager capace e pragmatico che pesa bene quello che dice. Lui si è espresso a proposito dei colossi del web (tutti americani) e di come conquistano introiti all’estero senza assumere quasi nessuno e praticamente senza pagare le tasse.
La questione è semplice: il web è ancora, fiscalmente, un’area franca. Io vendo pubblicità perchè sul mio sito o sul mio social network circolano decine di milioni di italiani, me la faccio pagare dalle aziende italiane (e anche dai privati) ma non pago le tasse in Italia perchè sono un’entità virtuale che riceve i pagamenti direttamente all’estero oppure anche in Italia, ma solo in transito.
A volte addirittura non sviluppo in Italia nemmeno i contenuti, cosa per la quale avrei bisogno di un minimo di massa critica organizzativa, ma li prendo virtualmente gratis da chi li ha. Il risultato è eccezionale: sede italiana pressochè inesistente (basta un ufficio e pochi impiegati), costo del lavoro praticamente nullo, tutto delocalizzato altrove. Non c’è niente, ovviamente nemmeno le tasse. Mi tengo solo i profitti e i dati sensibili di milioni di clienti.
E’ lecito, per carità. Ma eticamente ed economicamente inaccettabile. Esistono delle modalità per evitare che questo continui ad accadere. Sarebbe il caso di metterle in atto. Altrimenti continuiamo ad essere una colonia commeciale.
Secondo caso: le multinazionali che offrono altri servizi e soprattutto prodotti tecnologici. Intanto diamo per scontato che il mercato italiano del lavoro, paralizzato da una cultura adeguata alla difesa della classe operaia di circa mezzo secolo fa, non può assolutamente competere non solo con i paesi emergenti, ma nemmeno con molti paesi europei “evoluti”. E che quindi pensare che oggi qualche multinazionale decida di allestire degli stabilimenti di produzione in Italia è una pura illusione.
Ma andiamo oltre.
L’Italia è un mercato ricchissimo per chi vende certi servizi e certa tecnologia “alla moda”. Siamo storicamente tra i paesi con la più alta concentrazione di telefonini, ora “smartphone”, e di molti altri gingilli. I consumatori italiani si privano di mille cose, ma non dello smartphone di grido. E anzi, lo “devono” cambiare appena esce una nuova versione, pena l’essere “out”. E i ragazzini purtroppo crescono assorbendo questa sottocultura.
Quindi, giustamente, le multinazionali che vendono questi prodotti ci considerano un mercato appetibile e sono presenti in massa nel nostro paese dove producono fatturati faraonici. Peccato che al nostro paese non resti niente, al di là dell’IVA che gli italiani stessi versano al momento dell’acquisto. Infatti la pratica comune delle multinazionali è quella di “spostare” i guadagni in altri paesei europei fiscalmente più convenienti.
Come si fa ? Semplice.
L’azienda “Lemon” vende milioni di smartphone e incassa cifre da capogiro. Diciamo 2,5 miliardi di Euro. I margini per la tecnologia “aspirazionale”, quella che tutti vogliono possedere, sono enormi perchè i costi di produzione sono irrisori rispetto ai prezzi di vendita.
Detratti i costi organizzativi (bassissimi) in cui la “Lemon Italia” incorre, la filiale italiana della multinazionale registra un guadagno (altissimo), diciamo di circa due miliardi di Euro per fare cifra tonda, ma le proporzioni non sono queste.
La Lemon Italia dovrebbe quindi pagare le tasse su questi due miliardi. Ma sarebbe stupido. Meglio spostare il guadagno alla “Lemon Irlanda”: in quel paese le tasse sono molto più basse e l’utile finale post-tassazione risulterà molto più alto.
Allora la Lemon Irlanda fattura alla Lemon Italia due miliardi di Euro in “management fees” i famigerati servizi professionali intercompany.
In sostanza il ragionamento è questo: io che sono la Lemon, in Italia ho solo una filiale di vendita con dei negozi ed uno staff (minimo) che supervisiona la distribuzione nel paese. Il cervello di tutto, i megamanager, le strutture di supporto per ogni area aziendale si trovano altrove. E quindi se incasso quelle cifre in Italia è soltanto perchè altre aree della mia multinazionale lavorano per l’Italia. Quindi la consociata Italiana deve pagare altre consociate per questo “servizio”. Ovviamente le consociate che beneficiano dello “spostamento” di guadagni sono sempre quelle delle nazioni a tassazione più bassa.
La Lemon Italia così deve pagare la Lemon Irlanda per le superconsulenze e chiude il suo bilancio a zero o quasi. E paga pochi spiccioli di tasse nel paese in cui vende milioni e milioni di gingilli, mentre i soldi incassati dai consumatori italiani finiscono all’estero.
E’ un po’ semplificato, ma funziona esattamente così.
A volte ai “servizi professionali” si affiancano altri strumenti per generare costi, ma la sostanza non cambia. I documenti allegati alle fatture intercompany sono contratti per lo più ridicoli. I controlli sono minimi, anche perchè la cosa, realizzata per bene all’interno della UE, non è facilmente attaccabile. Siamo al limite del lecito, a seconda di come lo si fa.
Diverso è quando il trucchetto lo si fa con aziende diverse, con le scatole cinesi, con flussi che finiscono in paradisi fiscali extracomunitari. Lì il confine del lecito si supera con disinvoltura. Ma anche in quel caso è difficile agire, perchè è complicato scoprire quello che accade.
Ed ecco il fantastico risultato finale della Lemon: la produzione HW è in Vietnam, lo sviluppo SW in India, i call center per l’assistenza in italiano sono nell’est europeo o in africa, i dipendenti che si occupano dell’amministrazione, delle procedure, dei progetti si trovano nella Slovacchia o in altre nazioni europee a basso costo.
Dei due miliardi e mezzo sborsati dagli italiani non resta niente: le tasse vengono pagate in Irlanda e i profitti finiscono agli azionisti, per lo più americani. In Italia restano solo due cose: milioni di smartphone della Lemon e un pugno di dipendenti con la maglietta gialla “Lemon” in pochi punti vendita dedicati.
Qualcuno potrebbe dire: è la globalizzazione bellezza !
Ma certamente. Sottrasi al progresso e anche a certi macromeccanismi che regolano il mercato senza riavolgere il nastro del tempo non si può.
Ma il problema è un altro: la globalizzazione è, per l’ appunto, un fenomeno globale e quindi esiste dappertutto. In altri paesi però ci sono anche delle regole un po’ più serie da rispettare. Sarebbe il caso di pensarci anche qui, insieme, ovviamente, ad abbasare il regime fiscale che è esagerato.
Non c’è da preoccuparsi che accada qualcosa di spiacevole, ad esempio che la Lemon, in presenza di qualche regola in più, decida di lasciare il mercato: i suoi profitti sarebbero comunque faraonici anche se pagasse le tasse in Italia. Nè, in un mercato globale, potrebbe alzare i prezzi in Italia ribaltando il problema sui consumatori.
La verità è che pestare i piedi ai colossi è politicamente difficile. Ci sono delle alleanze internazionali e degli equilibri da mantenere.
Però qualcosa si può e si deve fare. Almeno per rimanere nella decenza.
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