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domenica, Settembre 24, 2023

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Obiettivo Europa

di Tiziana Pavone

L’aver scoperto che i terroristi di Bruxelles avevano programmato l’attentato per il giorno di Pasquetta indurrebbe a pensare che l’Europa sia stata colpita per guerra di religione. Non esiste una sola verità. E gli psicologi della percezione lo sanno bene. Sfatiamo subito un luogo comune: la religione non c’entra così tanto. Quindi, tra le interpretazioni, potrebbe farsi largo l’ipotesi secondo cui i terroristi avrebbero preferito colpire nei giorni di maggiore affluenza turistica, utilizzando la religione come alibi. E uno dei giorni utili a questo scopo, nel mondo occidentale è senz’altro la Pasquetta. Che siamo in guerra è vero. Lo ha detto anche Papa Francesco. Questa è una verità. “E per fortuna che abbiamo lui, dal momento che il Vaticano rappresenta uno degli obiettivi sensibili ma è anche un elemento di protezione per l’Italia – come sostiene Aldo Giannuli nel libro Guerra all’Isis – “perché possiede il più complesso e sofisticato tra gli apparati informativi del mondo”. In guerra per cosa?, si chiede un popolo disuguale come quello europeo. Sfatiamo un altro luogo comune, il binomio guerra-armi. La guerra non si combatte solo con le armi. Esistono guerre di conquista, guerre di lupara bianca. Esistono guerre mediatiche, economiche. E guerre interne. Siamo in guerra con chi? Forse non siamo dentro a una sola grande guerra, dal momento che in Europa non esiste una politica estera europea. “E’ importante articolare una politica estera che isoli l’Isis. Il nostro antagonista non è il califfato ma chi lo sostiene”, spiega Giannuli. “Ossia, l’Arabia Saudita, il Qatar, e indirettamente la Turchia”. L’Europa è solo uno dei bottini? O una palestra utile per spostare azioni di forza, dopo l’indebolimento in Siria? Molti giornali hanno titolato che Bruxelles è il nostro 11 settembre. Perché? Perché qualche accademico si precipita a spiegare che prima del 22 marzo gli attacchi a Charlie Hebdo, al Bataclan, al museo Bardo in Tunisia, si erano svolte impiegando armi in luoghi definiti come soft-target, ossia non presidiati. E con poche risorse. Questa volta l’attacco è stato programmato per farsi notare mediaticamente. Con una regia ben coordinata che ha giocato in casa, forte delle sue tipiche tattiche di guerra. Le bombe di chiodi vanno preparate in spazi ampi, sono instabili, necessitano di esperti e logistiche serie. A Bruxelles ci abita il covo di terroristi che fa la spola tra Siria ed Europa passando indenne tutte le frontiere. Così mentre il mondo credeva, a quattro mesi dalla strage di Parigi, ad una sconfitta della rete terroristica, dallo stesso quartiere dove era stato catturato Salah, sono partiti gli attacchi, 48 ore dopo la cattura. Due attacchi avvenuti in target che secondo il Belgio erano stati messi in sicurezza. Il colpo è stato persino anticipato, come ci raccontano le cronache, per paura che Salah Abdelslam svelasse il progetto. A seguito della diffusione della notizia secondo cui lui sarebbe stato disposto a collaborare con la giustizia belga a condizione di non essere estradato in Francia.

Ma la guerra non è tra Belgio e Francia per la contesa di Salah. Quello è un duello a due. La guerra è più ampia. E’ anche una guerra interna. A tal punto che per il sociologo esperto di terrorismo, Alessandro Orsini, ospite in questi giorni di svariati programmi televisivi, i terroristi “Sono i più fortunati del mondo perché i Paesi che dovrebbero unirsi per combattere contro lo Stato islamico, in realtà si combattono tra di loro”. Parole disarmanti queste. Ci avreste mai pensato? E’ tutto scritto nel suo libro, intitolato ISIS. Orsini ha analizzato bene i movimenti dell’Isis : “Ho analizzato tutte le conquiste dell’Isis che ci hanno impressionato, e ho trovato che l’Isis è il nulla che avanza nel niente. Nel senso che tutte le conquiste che l’Isis ha realizzato, dal Mosul a Raqqa a Sinjar sono avvenute in assenza di una opposizione. La guerra non è quella mediatica che stiamo vedendo ma è giocata su un altro piano. I grandi della terra, come Arabia Saudita, Stati Uniti, Russia, ma anche Stati come la Turchia, il Qatar, affermano che la loro lotta avvenga per la liberazione di Raqqa (bombardando postazioni dell’Isis, depositi di armi, campi di addestramento, ndr) In realtà la vera priorità è la lotta per la conquista di Damasco. Vale a dire per un pezzo importantissimo del Medio Oriente che si chiama Siria. Lo vediamo anche dai bobardamenti della Russia, che è entrata in azione nel settembre del 2015. Fino a oggi la Russia ha bombardato prevalentemente la fascia costiera filo americana dove non si trova l’Isis. L’Isis si trova all’interno del Paese. Anche per Putin la priorità non è la liberazione di Raqqa dove si nasconde Abu Bakr al-Baghdadi.” Putin di recente ha dichiarato ai media di aver finito il compito: “Missione compiuta”. E ha escluso l’impiego di truppe di terra a Raqqa né nel resto della Siria. In una televisione russa ha detto: “la missione delle truppe di Mosca in Siria è stabilizzare le autorità legittime del Paese  e creare le condizioni per un compromesso politico” I servizi segreti degli Stati europei non si parlano. Quelli interni del Belgio non si parlano. Chi conosce i nomi dei terroristi, non li comunica agli altri. Chi riesce a smantellare cellule pericolose, è perché ha speso di più nel settore della sicurezza. I servizi segreti marocchini avevano avvisato quelli in Belgio dell’imminente attentato. La guerra la fanno i servizi segreti? Forse i servizi sono un po’ troppo segreti e non “servono” più. Implodono.

Belgio radicalizzato?

Il Belgio, di suo, è diviso tra ricco nord e sud povero, confina con Francia Germania e Regno Unito. La sua posizione geografica permette di varcare i confini con facilità e in tempi molto brevi, essendo attraversabile in un paio di ore. La società belga è multietnica e conflittuale. Aderisce al trattato di Schengen. Al suo interno ha Molenbeek, il Comune diventato famoso per l’attentato di due giorni fa, che “vanta” tra i suoi ottantamila abitanti il 40% di stranieri, in maggioranza di fede musulmana e con un tasso di disoccupazione del 25%. Questa parte di comunità non è integrata, vive ai margini della società ed è facile preda per l’affiliazione da anni. Come è arrivato a essere un problema per l’Europa, il Paese che ospita il Parlamento europeo e anche un covo jihadista? Nel 2001 il comandante Ahmed Shah Massoud ricevette un regalo da Bin Laden e saltò in aria tenendo un videoregistratore-bomba allungatogli da due finti giornalisti di al-Qaeda. I terroristi che portarono a segno il colpo erano sbarcati con passaporti belgi. Si. Avevano doppio passaporto. Era già iniziata la propaganda jihadista di rete europea. Quella stessa che cominciò a convertire migliaia di giovani europei e russi, da far esplodere in medio oriente dopo essere stati sedotti (i cosiddetti foreign fighters, lett “combattenti stranieri”). Nel 2005 la prima ragazza europea morta perché caduta nella rete, Muriel Degauque. era figlia di un panettiere belga e morì kamikaze in Iraq. Lo stesso anno in cui quattro kamikaze si fecero esplodere in tre stazioni di metropolitana e su un autobus a Londra. Il bilancio fu di 56 morti. Ma un anno prima morirono già 191 persone in tre stazioni ferroviarie di Madrid. Colpite Spagna e Inghilterra, dunque. Chi erano i finanziatori? Molti imam salafiti iniziarono ad insediarsi in Belgio negli anni ’90 grazie alla sponsorizzazione dei sauditi. Nel 2010 alcuni di loro vi fondarono una organizzazione ispirata al salafismo, Sharia4Belgium, guidata da Fouad Belkacem. Prima per promuovere la legge islamica poi per reclutare combattenti in Siria. Il primo vero attacco in Belgio fu al museo ebraico di Bruxelles nel 2014. Morirono quattro persone per mano di Mehdi Nemmouche, poi catturato in Francia. Un anno dopo nella francofona Verviers, vicino a Liegi e ai confini con la Germania furono uccisi due jihadisti che stavano preparando un attacco a Bruxelles. Un altro attentatore, Ayoub el-Khazzani, fu preso sul treno Amsterdam-Parigi, dove fallì un attacco. Anche lui viveva in Belgio, Paese nel mirino dei jihadisti da 15 anni. Salah, l’attentatore di Parigi scampato alla cattura per quattro mesi, ha vissuto tranquillamente a casa sua, nel Comune di Molenbeek. Come fanno i tanti foreign fighters ritornati in Belgio da vari cugini amici e parenti. Fortunati, si. Perché oltre a muoversi all’interno di Paesi UE affatto uniti, che anzi, avendo interessi diversi non aprono gli archivi di Stato a una unica intelligence europea dura a venire, loro non passano nemmeno al setaccio di una inesistente banca dati europea sui terroristi. Il Belgio è dichiarato fallito da diplomatici e intelligence. Nonostante abbia avuto appoggi militari e di intelligence da Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti. Gli attentatori dell’ultima strage hanno portato a segno il colpo grosso. Restituendo al mondo la data ufficiale della dichiarazione di guerra all’Europa. Dopo Madrid e Londra, Parigi non era bastata. E Bruxelles non basterà. Ce lo dice dai microfoni della tv di Stato anche Giacomo Stucchi, presidente del Copasir:  “Il direttore del Dis, l’ambasciatore Giampiero Massolo, fa un’analisi sulla possibilità che ci siano cellule terroristiche strutturate anche nel nostro Paese. Si lavora per inertizzare queste cellule. Chi dice che è tutto sotto controllo e non accadrà’ nulla illude le persone” Il target si è alzato. Non è più un ristorante ma luoghi presidiati dalle forze dell’ordine.

L’Italia rischia meno, il terrore è un altro.

Non solo Belgio. I covi del terrorismo internazionale sono ovunque. E per trovarli pare si debba passare al setaccio le abitudini dei cittadini.  Un’altra libertà che se ne va, senza oppositori. Anche se da noi non ci sono ghetti. Siamo tolleranti. Fino al paradosso di soccombere sotto l’egemonia degli intolleranti. Rinunciamo alla nostra cultura, all’arte. Ci riempiamo di scorie. Rispettiamo il credo altrui. Vendiamo i mari ai francesi, braccando i pescatori italiani. Buttiamo le arance siciliane, importiamo olio tunisino. Vogliamo svendere la Sardegna al Qatar. Quel posto dove esiste una fabbrica di bombe, la legale RWM ITALIA SPA, che vende ai sauditi, impegnati a bombardare scuole e ospedali civili nello Yemen. L’Italia non ha gli stessi problemi di Bruxelles, abbiamo una delle intelligence migliori al mondo e un sistema di sicurezza molto attento a prevenire. In effetti le guardie sono entrate a proteggere persino Santa Marta in Vaticano. E noi vogliamo integrare tutti. Ciononostante il prezzo che ci aspetta è quello di vivere una intera esistenza facendoci fotografare e archiviare fin dentro l’iride, in ogni parola inviata con un clic dentro a una qualsiasi stupida chat, in ogni spostamento, in ogni acquisto persino con la prepagata. In ogni emozione e in ogni relazione. Schedati fin dentro al carattere, alle reazioni emotive, ai dati biometrici, con strumenti tecnologici invisibili che forse un giorno saranno innestati nei robot che lavoreranno al nostro posto. Siamo tutti spiati e attenti a non somigliare agli stili di vita dei terroristi. Loro non hanno problemi a viaggiare, ad avere doppio passaporto, a pagare affitti, a guidare macchine importanti. Non sono loro, i mendicanti. Alcune analisi che mi capita di leggere in rete, spingono verso il tema finanziamenti. Interrogandosi sui costi di armi, computer, cellulari in simbiosi con la rete dark, criptata, si capisce che sono loro ad andare a braccetto coi padroni della guerra. E se a finanziare fossero le diverse potenze del mondo occidentale? Controllare il popolo democratico e pacifista dell’Europa? Piuttosto che i finanziatori dei terroristi? Io se finanzio, so bene a chi vanno i soldi! Non metto sotto esame quelli che non hanno mai sparato un missile contro un solo uomo dell’Isis.  L’Italia per esempio non ha mai sparato. Preferisce addestrare e far combattere internamente gli oppressori. Ma l’America ha diffuso ai media la notizia secondo cui all’Italia, geograficamente perfetta, è stato affidato il compito di essere il responsabile di tutto quello che accadrà in Libia. Luogo dove tutti combattono con tutti. Parecchie tribù che sventolano bandiere nere nascondono in realtà interessi economici sui traffici e sul petrolio. L’Isis da quelle parti è un marchio che si prende in franchising. Nel senso che è sostenibile moralmente da tutti, a seconda delle proprie convenienze. E Sirte, considerata come Raqqa una città del califfato sta proprio lì. Luogo di petrolio. Avrebbe senso in tale contesto, colpire il traffico di petrolio clandestino localizzato altrove in Siria, a costo dell’abbattimento di un boing civile russo, se i soldi che alimentano l’Isis arrivassero da altri luoghi, sauditi europei e americani? Questo lo sa solo chi gioca coi soldatini sui mass media, ma di certo non è difficile immaginare che aprire gli archivi di Stato delle diverse potenze europee provocherebbe imbarazzi eclatanti alla migliore delle intelligence. Che, essendo arrivati al top sulla gamma della sicurezza, sono al punto di non ritorno. Continuano a non parlarsi. Però concordano nel farci sapere che non dobbiamo avere paura. E forse hanno ragione. Il terrore non è nelle bombe ma sui media di chi le finanzia. Il terrore è soccombere ai Paesi strategici che sono anche quelli più ricchi. Il terrore è dover pagare la Turchia quando è lei che dovrebbe pagare noi. Nell’Europa che non si parla e che ci vuole tutti più poveri, dobbiamo scoprire che siamo noi ad aver creato il caos in Libia e Medioriente. Siamo noi a dover lasciare il posto. E i migranti, che dovevano abbassare il costo del lavoro, sono fermi davanti al filo spinato perché alcuni Stati non vogliono importare manodopera non qualificata. Non vogliono lasciare il posto. Il terrore è che non sai chi ti controlli se sei sempre stato a casa privo di strategie belliche. Che altrove cambiano sulla tua testa. Se nel 2013 la Francia stava per attaccare il Medioriente insieme all’America, cosa gli ha fatto cambiare rotta? Per cosa. Per chi. E perché oggi i foreign fighters tornano in Europa per vendicarsi? Sarà mica saltato qualche accordo tanti anni fa, a nostra insaputa? Noi che vorremmo sapere, in realtà non sappiamo nulla. I segreti a qualcosa dovranno pur servire.

Tra le righe de l’Huffington Post la direttrice Lucia Annunziata scrive senza remore:”È ora che si indichi anche il vero nemico politico che c’è dietro il terrorismo. Cioè che si  facciano i nomi degli stati che finanziano questo progetto per i loro fini di dominio. Sappiamo chi sono. Sono nostri alleati, ufficialmente. Ma questa ambiguità diplomatica va rotta. Il costo è alto, e non solo in termini di affari. Il rischio di rotture internazionali interstatali acuisce il pericolo di una precipitazione globale ma se non si chiariscono gli schieramenti di questa guerra, non riusciremo certo a costruire strategie di difesa.“

In poche righe si capisce il clima surreale interno, la difficoltà di mettere mano a infiltrazioni talmente sofisticate e utili a troppi, che in confronto entrare negli archivi di Google è niente. E si capisce anche che l’Europa è unita solo dall’euro Cioè da una moneta virtuale, privata, speculativa. Non ricordo più chi è che disse; “Povera Europa. E’ finita!” Qualcuno se la deve essere giocata a dadi sul tappetino verde di un Casinò. Da almeno qualche anno. Da quando cioè, ho sentito pronunciare quella frase. Girava anche una cartina, che delineava i nuovi assetti futuri, col sud Europa ribattezzato colonia del nord. E se sapremo chi ha giocato a Risiko per impoverirci, forse non risolveremo la divisione interna tra ricchi e poveri in Belgio, ma almeno ci faremo passare la moda di essere indifferenti al mondo, votati ai soli opportunismi che ci hanno portato al disastro totale. Passata inosservata  “l’opportunità Europa”, ora c’è rimasta l’invasione di chi usa la democrazia per affermarsi, la sharia per dominare. Obiettivo Europa. Per l’invasore. E per chi c’era già. Ma soprattutto per la speranza futura, chiamata Yanis Varoufakis. Piombata a sorpresa su Roma un giorno prima dell’attentato a Bruxelles. L’ex ministro delle Finanze greco, su invito di European Alternatives si è presentato in Italia per parlare del Democracy in Europe Movement (DiEM25), un nuovo movimento politico che cerca di proporre un programma alternativo su finanza, debito, povertà, immigrazione e lavoro per l’Europa. Tra gli obiettivi, quello di creare una piattaforma “per la promozione della trasparenza e della democrazia contro l’Europa delle burocrazie e dei nazionalismi” Il DiEM25 vuole una Europa unita non sulla carta, ma nei fatti. L’Unione Europea lascerà il posto agli Stati Uniti d’Europa?

Il mondo della musica per Bruxelles.

In questi giorni parlare di musica è difficile. Persino parlare di vita fa provare vergogna. Non entra in testa dolce come la canzone della Pace, di John Lennon. Che era bella, quella canzone. Aveva un nesso tra i versi. “Immagina non ci siano nazioni, non è difficile da fare, niente per cui uccidere o morire e nessuna religione. Immagina tutta la gente che vive in pace.”

Invece in testa oggi tutto il mondo ha solo parole sconnesse. Sconnesse come le intelligence. Che tra i Paesi membri della Unione Europea non si sognano di istituire una superprocura, privandoci così della gioia di poter scorrere dentro l’hashtag  “Je suis parlement européen”! Parole senza contenitore, servono quanto le analisi in tv. Parole forse utili in un gioco di associazione, o per esercizi di memoria, se ce ne fosse ancora. Parole. Tante. Come quelle che servono a spiegarci. Aereoporto kamikaze metropolitana frontiere esodi metaldetector esplosione militarizzazione. Ma non nasce nessuna canzone.

La musica per una volta ascolta. Le canzoni oggi stonerebbero. In fila ci si mettono da uomini gli artisti, per lasciare che i sentimenti scorrano. In passerella siamo tutti uguali, mentre lasciamo la firma sul libro dei ricordi insieme a chi è vicino all’arte. Le uniche parole degne di uscire, sono quelle che provengono dal cuore. Si fanno forza, quelle, nello scorrere insieme in coro. Dalle parole di Francesco Renga, tra i primissimi a commentare, “Non dobbiamo avere paura. Noi non abbiamo paura. Il male non vince mai”, a Gianni Morandi, tra i più seguiti su Facebook perchè risponde in prima persona ai suoi fans, rendendoli partecipi della sua vita quotidiana privata. A un suo ammiratore, che dopo aver letto la domanda sbigottita di Gianni “che sta succedendo nel mondo?” risponde chiedendo di poter superare lo sconforto col supporto degli artisti. Gianni l’artista frena e ribatte da uomo: “Cosa possono fare gli artisti in un momento come questo? Hanno il compito di portare qualche momento di spensieratezza e divertimento ma davanti a certe tragedie sembra tutto inutile. Un abbraccio”

Gli artisti si uniscono al cordoglio in rete, sotto l’hashtag #prayforbruxelles #Bruxelles #jesuisbruxelles. E con loro anche tutti i fan che l’estro lo hanno investito sul tifo a cominciare dai nomi fanatici che si sono dati sui social: dalla fanpage Il Volo – Italian Fan Club a Questo è Gigi D’Alessio/Sei D’Alessiano

E poi c’è un artista, un cervello in fuga, un ibrido, che in Belgio ha trovato la strada per farsi apprezzare. Si chiama Giacomo Lariccia. Sul suo profilo ci si va per sapere come sta. E per riascoltare la sua canzone, intitolata Bruxelles. “Grazie a tutti per il vostro interesse. Noi siamo sani e salvi e questa mattina eravamo tutti e cinque insieme e fortunatamente lontano dai luoghi degli attentati. Nessuno fra i nostri amici sembra coinvolto. Qualcuno ha scampato per pochi secondi la bomba a Malbeek e fortunatamente non è rimasto coinvolto. Seguiamo sui social network lo spuntare di un messaggio o un watsapp che ci possa tranquillizzare. Attendiamo ancora per scoprire l’identità e il numero delle vittime che temo siano molte di più di quanto fino ad ora ipotizzato.
Bruxelles è stata colpita e forse tutti ce lo aspettavamo da tempo: restava da stabilire come e dove. E’ una piccola città ma un simbolo importante per il mondo. Una “città di tutti e di nessuno”, aperta a mille lingue e mille cultura che negli anni ha imparato ad aprirsi ai nuovi volti dell’emigrazione che l’hanno attraversata.
Ci diranno che bisogna reagire. Lo ripeteranno mille volte. Penso che l’unica reazione intelligente che ognuno di noi nella propria vita può mettere in atto sia quella di moltiplicare i gesti di amore verso chi abbiamo intorno. I politici potranno minacciare, i militari potranno bombardare, i terroristi potranno farsi esplodere ancora e ancora ma una cosa mi è chiara da molto tempo: il mondo non va avanti grazie a loro ma nonostante loro. Ogni giorno il mondo è sorretto da tutte quelle persone che fanno un gesto disinteressato, la vita va avanti grazie a tutti quelli che costruiscono ponti e distruggono muri.”

Forse un giorno pubblicherò l’intervista che facemmo a Roma, dove trovammo il tempo di stare seduti sul crocevia di due viaggi diversi. Perchè sarebbe bello tornare a quei giorni spensierati, alla musica che riparte dalle miniere di carbone per ridiscendere le fermata della nuova generazione di Bruxelles. Spalancando il cuore all’Europa delle nuove opportunità.

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