Avevo quasi sedici anni quando David Bowie si è manifestato nella mia vita.
Allora passavo tutti i pomeriggi a guardare DJ Television nella speranza trasmettessero due video: Sledgehammer di Peter Gabriel ma soprattutto Absolute Beginners di David Bowie, brano che riusciva davvero a stregarmi con quelle note che solo anni dopo imparerò essere delle volute dissonanze.
A quel punto inizia, per me, la riscoperta di David Bowie cercando tra gli amici più grandi chi avesse cassette, dischi o qualsiasi cosa mi facesse conoscere questo cantante.
Parlo di riscoperta perché, di fatto, avevo già inconsapevolmente assimilato i suoi brani grazie alla radio, alla TV ma soprattutto alla pubblicità. Ecco che prima ancora che fossi maggiorenne già amavo i brani che tutti noi conosciamo: “Heroes”, “Space Oddity”, “Life on Mars?”, “Rebel Rebel”, “Ashes To Ashes”, “Fame”, “Starman”.
Arrivarono gli anni ’90 e parte di quell’amore, insieme ad altri, sbiadì (grave errore di gioventù) a causa della mia crescente passione verso la chitarra elettrica e verso i “Guitar Heroes” (Yngwie Malmesteen e Vinnie Moore in testa) che mi portarono verso un eccessivo gusto per il virtuosismo, facendomi perdere di vista l’essenza della musica.
Negli ultimi dieci anni avevo ripreso a riascoltare i dischi di David Bowie, complice la scelta di mettere in repertorio con le mie cover band alcuni suoi brani e principalmente “Heroes” e “Under Pressure” (altro capolavoro con i Queen). Adesso con maggiore consapevolezza. E con maggior gusto.
Tre giorni fa, come tutti, ho iniziato ad ascoltare il suo ultimo lavoro: Blackstar.
Non ho avuto nemmeno il tempo di metabolizzarlo.
Onestamente non posso affermare di essere tra quelli che lo adoravano sopra ogni cosa, ma ho sempre riconosciuto la sua grandezza e l’ho sempre ritenuto tra i più influenti artisti del pianeta.
Da oggi lo è dell’intera storia della musica.
Ciao David, e grazie.
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