Oggi moriva una grande jazz singer, una diva, un’essere speciale dall’animo antico, un’artista del calibro di Ella Fitzgerald o Billie Holiday. Otto anni fa, nel tardo pomeriggio, una notizia che, chi ama davvero la musica, non avrebbe mai voluto leggere: Amy Winehouse è morta.
23 Luglio 2011: Alle 15:53, al numero 30 di Camden Square, Amy Jade Winehouse è stata trovata morta nel suo letto. Sul posto sono accorse due autombulanze, ma il personale medico non ha potuto fare altro che constatare il decesso.
BOOM! Mezzo mondo della musica, addetti ai lavori, fans, giornalisti, musicisti, produttori sono rimasti basiti. Ognuno è rimasto, almeno per un attimo, in religioso silenzio, attoniti, increduli e terribilmente straziati dal dolore.
Quel GENIO aveva 27 anni… e si, parliamo dei mitici maledetti anni del Club 27, gli anni in cui il destino di alcuni grandi, controversi, anticonformisti, geniali, unici e inimitabili artisti, si sono dati appuntamento, passando attraverso i propri tormenti dell’anima, ognuno mano nella mano con i propri fantasmi.
E così, quel 23 Luglio del 2011 Amy raggiunge altre anime elette, come quella di Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin e Kurt Cobain, tutti morti all’età di 27 anni, tutti refrattari all’umano vivere convenzionale, tutti terribilmente sensibili fino a non saper sostenere la leggerezza del vivere (o dell’essere, come diceva Milan Kundera).
Eppure non sarebbe dovuta essere una notizia che coglieva di sorpresa, perchè negli ultimi periodi, negli ultimi mesi, settimane e giorni della sua vita, Amy aveva mostrato un decadimento che straziava i cuori.
Rimane nella mente un concerto in particolare, quello del il 18 giugno del 2011, al Tuborg Festival, davanti a 20mila persone a Kalemegdan Park, a Belgrado. Amy era l’ombra di se stessa, sbiascicava, non cantava. Non ricordava le parole delle canzoni, non riusciva a stare in piedi, era in uno stato palesemente confusionario. Abbandonò il palco per ben tre volte e per tre volte gli avidi manager, che l’hanno sfruttata fino all’ultimo, l’hanno rimandata indietro sul palco…mentre i musicisti e coristi, con professionalità e dignità, l’hanno sostenuta e hanno continuato a suonare e cantare.

Rimarrà di lei la sua incredibile voce, il suo incredibile e inimitabile modo di cantare, la sua essenza stessa di artista, che tutto trasformava e impreziosiva quando le note e le parole di una canzone passavano attraverso il suo vibrato, avendo prima toccato l’empatico battito del suo cuore e il tormento e la genuinità della sua anima.
Rimane di lei il suo modo d’essere e di mostrarsi, mai frutto di studi di immagine, per quanto potesse sembrare invece il contrario. Ma lei, che ci si creda o meno, era così, era lei, lei con quei capelli, quel trucco accentuato sugli occhi e il suo particolare modo di vestire… lei, tutta vera, fino in fondo, fino alla morte!
Foto Gallery della Mostra a San Francisco: ”Amy Winehouse: a family portrait”
(Fonte foto AFP)
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Per chi volesse meglio ricordare Amy Winehouse consigliamo un docu-film di Asif Kapadia, documentario dal titolo “Amy: The girl behind the name“. La pellicola va indietro nel tempo alla ricerca della ragazzina ancora in carne che fa le boccacce nei video casalinghi, fino a seguirla negli anni attraverso il materiale di repertorio privato, mentre scopre il suo dono di cantare e il suo amore per la musica d’altri tempi, e ancora più in là nel tempo, fino a quando diventa famosa, fino a quando quella fama la divora, la consuma rimandando allo spettatore immagini di inquadrature impietose in cui vengono mostrate tutte le umane debolezze di una grande donna, seppur distrutta e consunta.
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