Negli anni cinquanta e sessanta approdare al Festival di Sanremo era, per qualsiasi cantante, l’obiettivo primario della carriera artistica.
Nonostante le polemiche, che già allora accompagnavano le scelte delle canzoni e dei cantanti, esibirsi su quel palco poteva significare un futuro di successo, o comunque l’inizio di una carriera.
Poi, con l’avvento del sessantotto, e soprattutto con la nascita del cantautorato romano, è iniziato un vero e proprio ostracismo nei confronti del Festival, che veniva considerato “borghese“, “decadente“, privo di quella “verità sociale” della quale i suddetti cantautori avevano fatto la loro bandiera.
Insomma, negli anni settanta, e anche buona parte degli ottanta, i cantautori di “razza” a Sanremo non ci andavamo, e se ci andavano era soltanto per partecipare al Premio Tenco.
Poi, lentamente, le cose sono cambiate, a cominciare dalla partecipazione di Fiorella Mannoia, che presentandosi con brani firmati da cantautori di pregio, ha per prima incrinato questo tabù.
A me tutto questo atteggiamento spocchioso ha sempre dato molto fastidio, l’ho sempre definito molto “italiano“, perché solo in Italia siamo così bravi a definire la musica di serie A o di serie B.
Oggi, comunque, tutto questo fa parte del passato, come il Festival, del resto.
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