di Athos Enrile
E’ passato poco tempo dalla fine dell’ormai mitico mega concerto di Modena, quello delle 220.000 anime presenti, quello di Vasco Rossi ma non solo, e mi viene proposta una chiacchierata con Andrea Braido, uno dei testimoni da palco di quell’evento storico: come non cogliere al volo l’occasione di sentire una delle presenze più autorevoli presenti il 1 luglio al Modena Park? Gli spettatori, i fan, gli addetti ai lavori, vivono – e raccontano – ciò che hanno vissuto dal loro pregevole punto di vista, ma manca quasi sempre la chiusura del cerchio, ovvero l’opinione di chi sul palco ci sale davvero e diventa uno dei motivi dell’entusiasmo – o della delusione – generale, e mettere quindi a confronto i differenti aspetti visuali rende onore all’obiettività finale.
Nel passato avevo intervistato Andrea Braido un paio di volte, in concomitanza dell’uscita di suoi album, molto diversi tra loro, perché la versatilità di questo musicista è unica. La nostra ultima chiacchierata diventa nuovamente l’occasione per parlare dell’imminente rilascio discografico, un “The Best of…” innaffiato da qualche significativa novità, un disco in cui Braido rimane sempre il protagonista assoluto, passando dal funky, al jazz e latin jazz, allo spanish, per arrivare poi all’ambient, al pop e al rock.
E’ considerato da molti come uno dei più talentuosi e versatili chitarristi al mondo, suonando oltre che la chitarra elettrica e acustica, anche basso, batteria, percussioni, tastiere, pianoforte.
Rileggendo ciò che ci siamo detti sono rimasto colpito da alcune cose in particolare, grandi messaggi che diventano suggerimenti per i nostri giovani, e un’idea finale legata al significato di “comunicazione musicale”, tra talento, esperienza e capacità di applicazione.
Ecco cosa mi ha raccontato…
Partiamo da Modena, dalla sensazione che si vive dal palco, molto diversa dalla percezione del fan e dello spettatore.
Posso dirti che mi ha impegnato molto di più di due concerti, perché suonare un brano di nove minuti – con due di attesa prima di salire sul palco – dove io sono il protagonista e non c’è la voce, con la piena responsabilità del momento, è stato per me davvero impegnativo a livello emotivo, quindi una cosa enorme, anche se quando sali sul palco questa sensazione dura pochi istanti perché vieni subito completamente assorbito dalla musica e da ciò che si sta per affrontare, quindi il fatto che davanti ci siano duecentomila persone o un milione per me non cambia molto… in quel momento si è totalmente concentrati; però… gli istanti prima sono terribili, anche per uno che suona come me da molti anni: l’emozione del primo istante, quello che precede l’inizio della performance, è sempre tremendo, e a Modena tutto questo l’ho avvertito moltissimo.
Si trova in quei momenti conforto con chi “lavora” con te sul palco?
Beh, in quel caso mi sono trovato on stage con musicisti che erano già “caldi” e quindi ero in… svantaggio, ma devo dire che con Maurizio Solieri, nei camerini, ci siamo fatti delle belle risate, perché sottolineava la mia agitazione… andavo avanti e indietro con la chitarra in braccio, ho studiato, ho suonato, ho bevuto un rum per calmarmi, mi sono fatto una camomilla, insomma ero molto adrenalinico; per quanto riguarda lo staff tecnico sono stati ovviamente molto professionali… io ho rispettato perfettamente le tempistiche e loro anche e quindi ci siamo trovati molto bene. Devo dire che queste sono cose che vanno oltre la musica, occorrono le palle, perché se vai in bambola è finita; un professionista deve saper affrontare queste cose, ma non è per niente facile.
Mi è capitato di parlare con chi ha suonato all’Isola di Wight e mi ha raccontato le stesse cose: l’oceano di folla per un professionista non influisce sulla performance…
Io ho avuto più paura a vent’anni, quando alla fine del servizio di leva andai a New York e mi trovai a suonare nei locali storici dove regnavano le jam session, magari c’erano solo cinquanta spettatori, ma tra quelli trovavi musicisti pazzeschi che ti osservavano, e così ti sentivi giudicato da professionisti e c’era un tipo di sensazione diversa; a Modena l’emozione ha riguardato l’evento in toto, l’energia percepita da una folla enorme, e poi il calore che mi hanno dimostrato, l’applauso sia in entrata che in uscita dal brano: sono cose che mi hanno fatto molto piacere, dimostrazioni di affetto e ammirazione nei miei confronti.
A bocce ferme, a freddo, ti resta la sensazione di aver partecipato a qualcosa di storico e forse irripetibile?
Più che ragionarci su ho… tirato un sospiro di sollievo, del tipo “anche questa l’ho fatta”, e l’ho fatta bene, al massimo delle mie possibilità. Poi ci sono i ricordi che restano, e io ho molta memoria e ricordo tutti gli istanti vissuti, molto intensamente, con estrema concentrazione sugli obiettivi. In camerino, tanto per dire, mi sono fatto quattro ore di studio, suonando dagli Steely Dan a Bach sino a Mozart, tutto lo scibile musicale per poi ripassare una volta il pezzo che avrei dovuto fare. Tutto questo in un clima molto silenzioso, con l’aria condizionata, il succo di frutta, tutte cose che rilassano. Certo è che quando ho sentito il boato del pubblico sono rimasto un attimo stordito; tieni conto che avevo avuto altre grandi esperienze, come a San Siro – con Vasco – o con la Pausini in Sud America – a Lima c’erano 500000 persone – ma in questo caso avevo un’ora e quaranta da aspettare e ho condiviso un po’ di ansia con Solieri, anche se lui è entrato sul palco dopo quarantacinque minuti e ha dovuto… soffrire di meno.
Resto ancora un attimo su Modena. A differenza dei grandi raduni del passato, carichi di problematiche di ogni tipo, in questo caso tutto è andato liscio, nonostante sia questo un momento difficile e pericoloso quando si parla della concentrazione di molte anime in un unico spazio: organizzazione perfetta?
Direi che Vasco ha vinto due volte, perché non solo è riuscito a realizzare un evento unico nella storia della musica – stiamo parlando di un singolo artista e non di un festival con tanti gruppi – ma ha centrato l’obiettivo anche dal punto di vista della sicurezza, tutto curato nei minimi particolari, e il risultato è stato uno smacco a chi dava una connotazione precisa, negativa, al “popolo di Vasco”. Tutti di un’educazione esemplare e, tranne la persona deceduta per un infarto nella mattinata – ma sarebbe probabilmente successo in ogni caso – ci sono stati malori sporadici legati al caldo, alla lunga attesa all’aperto, però tutto è andato liscio come l’olio. Ho letto qualche lamentela di fine concerto legata al difficile defluire delle persone, ma una folla simile determina sempre un po’ di disagio, largamente compensato dallo spettacolo messo in campo. Qualcosa da far notare anche all’estero, pensando a ciò che a volte accade quando certi stranieri vengono in Italia e agiscono senza alcun senso civico. Noi non siamo mai andati a Londra a deturpare fontane e monumenti, anche perché se lo fai a Londra o a New York ti ingabbiano e non esci più!
Veniamo a noi… veniamo a te, ricordo di averti intervistato due volte, la prima nel 2011 quando scrissi di un tuo lavoro in ambito jazz, e più recentemente, nel 2015, quando uscì un tuo disco live dedicato a Deep Purple e Raimbow, quindi due generi molto diversi tra loro: vista questa tua versatilità ti chiedo… qual è l’amore musicale principale di Andrea Braido?
Direi che la cosa che personalmente accomuna tutte queste musiche apparentemente differenti – in realtà c’è uno stretto grado di parentele tra quelli che sono definiti “generi”, all’interno della famiglia del rock – è il dono dell’improvvisazione, intesa come gestione autodidatta dello strumento, una cosa che nessuno ti insegna – si insegnano delle regole, delle scale, ma quando devi tirar fuori qualcosa di fresco e di istantaneo, quello lo devi sentire tu -, e questo è un talento che ho avuto sin dall’inizio, sia per quanto riguarda la batteria che successivamente la chitarra e il basso. Sintetizzo: ciò che accomuna tutto è l’amore per la musica nella sua globalità – senza alcuna barriera -, ma soprattutto l’improvvisazione, perché io posso improvvisare in un pezzo jazz suonando in modo blues o viceversa, posso suonare un pezzo rock inserendo pillole di classica e comunque tutto fila liscio.
Ma esiste un musicista che hai amato di più rispetto ad altri?
Io ho dei maestri – molti – che sono sempre con me e che non sono mai cambiati: Jimi Hendrix, Jeff Beck, Ritchie Blackmore, Bach, Beethowen, Stravinsky, Bartók, Parker, Coltrane, Rollins, Corea, Zawinul, tutti quelli usciti dalla scuola Miles Davis.
Visti che ci siamo spostati sulla tua produzione occorre sottolineare che sta per uscire un nuovo album, “The Best of Andrea Braido”.
Questa è stata una bellissima idea di Beppe Aleo, di Videoradio, mio discografico dal 2005, che mi ha proposto di realizzare una selezione tratta dal mio passato, dieci brani a cui aggiungere quattro inediti, e mi piace l’idea che un fan o anche una persona che mi conosce poco, attraverso questo sunto musicale possa farsi un’idea precisa della varietà della mia proposta, immagine che difficilmente si può carpire da un singolo album tematico.
So che cercando a fondo si trova la concettualità in ogni disco… che cosa lega i brani del tuo nuovo lavoro?
La mia vita musicale, le mie esperienze, il tutto unito ai quattro inediti, recenti – scritti tra il 2014 e il 2015 – che forniscono l’immagine dell’attuale Braido; c’è un brano in particolare, “Harmonic dreams – che utilizzo anche quando faccio yoga – che regala una dimensione pacifica, similare alla musica indiana; altri, molto classici come struttura, riportano ad attimi particolari, importanti, vissuti nella mia terra… il filo conduttore è la mia vita, racchiusa in un contenitore, ridotto, ma significativo.
Hai accennato alla pratiche yoga: ti aiutano nel tuo mestiere?
Certo, e non solo quando devi salire sul palco. Occorre essere padroni della propria energia e lo yoga è una delle pratiche che aiuta a dominare certe situazioni: penso all’agitazione, al mal di testa, al mal di stomaco, spesso frutti delle nostre somatizzazioni. Tutto ciò può essere regolato attraverso la mente, con esercizi yoga, con la respirazione e l’equilibrio con la natura, e questo per me è sempre stato un punto di riferimento. Io sembro molto agitato sul palco, ma in realtà sono molto pacifico dentro e riesco a gestire la mia energia.
All’interno del nuovo disco metti in mostra il tuo status di polistrumentista…
Sì, anche se c’è una lunga lista di “aiuti”, ma in molti brani ho fatto tutto da solo, dalla batteria al piano.
Pensi che sia un progetto proponibile dal vivo?
Non ho pensato a qualcosa di specifico legato al progetto, ma ho dei concerti estivi in trio che saranno l’occasione per suonare alcuni di quei brani…
Dopo undici CD, un DVD e tante esperienze, qual è il tassello da aggiungere al puzzle della tua carriera?
Beh, vorrei suonare con tanti grandi, come Herbie Hancock, Chick Corea… John McLaughlin – che ho già conosciuto a Londra – ma è certo che ho ancora tanti sogni nel cassetto, legati sia all’emozione che ti dà il rock sia a dimensioni più naturali, come un concerto in mezzo alla verde e il pubblico sereno sul prato che vive quel momento magico. E tra le tante cose che mi frullano per la testa spero di realizzarne almeno una piccola parte.
In tutta questa storia che, come hai sottolineato, è ormai somma di molteplici esperienze, esiste un episodio particolarmente lieto e uno che ti ha provocato una discreta delusione?
Un episodio divertente, che ho già raccontato, è legato alla mia antipatia iniziale per il radiomicrofono perché mi sembrava che cambiasse il suono, e volevo il mio cavo col jack come da tradizione, anche se la comodità di muoversi senza cavo è palese. Per inciso a Modena mi sono adeguato, anche perché la tecnologia si è nel frattempo notevolmente evoluta.
Quando con Vasco suonammo a San Siro, il 10 luglio del ’90, chiesi un cavo lungo almeno trenta metri; il problema fu che il palco era talmente grande che quando facemmo “Alba Chiara”, nel finale, preso dalla musica mi spostai oltre la lunghezza concessa dalla connessione, e quando il jack si staccò pensai: “E adesso? Cosa mi invento? Come faccio a chiudere il pezzo? Cosa posso dare di più?”. La mia bella pensata fu quella di tirare la chitarra per aria, e quando scese andò in mille pezzi; ma la cosa più incredibile è che il grande Diego Spagnoli ne raccolse i pezzi con la paletta, la fece riassemblare e due giorni dopo la usai a Roma…
Hai fatto il Pete Townshend della situazione!
Sì, ma lui le chitarre le distruggeva e le dava fuoco, io l’ho solo tirata per aria, come via di fuga istintiva da una situazione difficile. Mi è capitato una volta di dare volontariamente fuoco ad una chitarra ma ho rischiato di prender fuoco anche io: ero un omaggio ad Hendrix, a Venezia, e c’era parecchio vento; ho acceso il fuoco con successo ma… la fiamma mi ha inseguito! Ho iniziato a correre lontano, ho preso la chitarra in fiamme e l’ho tirata al pubblico – una bella scenografia! – come fosse un meteorite incandescente.
Per tornare alla tua domanda relativa ai momenti difficili penso a quando il cantante con cui stai lavorando ha un problema, un malessere, e lo trasmette e ti guarda come se tu potessi farci qualcosa, come se non fossi un chitarrista ma un medico; attimi complicati da gestire, come capita in tutti i lavori, ma ho sempre cercato di dare risposte professionali, studiando e dando sempre il meglio, ma salvaguardando la mia privacy, perché quando stai via da casa per mesi devi trovare un giusto equilibrio…
Accade a volte accade che si mitizzi qualcuno e poi quando hai occasione di conoscerlo resti deluso dal suo lato umano…
Credo che mitizzare qualcuno sia una cosa molto pericolosa ancorchè di moda nella nostra società occidentale; noi prima di tutto siamo persone e se è vero che si possono provare forti emozioni all’impatto – a me è successo la prima volta con Mina e con Celentano, o Vasco dopo molto tempo dall’ultima frequentazione – è altrettanto certo che creare dei miti è sbagliato e spesso fastidioso per gli artisti stessi che, seppur molto famosi, apprezzano la semplicità piuttosto che la deferenza assoluta. Ovviamente c’è momento e momento per ogni cosa e occorre sapersi muovere a seconda del contesto.
Rammarichi? Rimpianti?
Direi di no… mi sono sempre preso la responsabilità delle mie scelte e… sicuramente la mia nuova moglie – oramai siamo insieme da dodici anni – mi sta dando un aiuto enorme dal punto di vista organizzativo – e anche caratteriale – perché io sembro un agnellino ma posso trasformarmi in leone feroce, e un animale feroce a volte va calmato, e quindi una donna vicino, che abbia il polso della situazione, che sappia consigliarti, cercare faticosi compromessi per il bene comune, è cosa importantissima.
Nessun rimpianto, sono il frutto della vita che ho vissuto e non potrei essere diverso…
Quindi piena soddisfazione!
Beh… sono saggio, dai! Ma come mi vengono bene queste perle di saggezza?
Sei arrivato presto alla saggezza!
Occorre guardare sempre avanti e cercare di migliorarsi…
Anche io mi spaccio per uomo saggio e dico spesso che la più grossa soddisfazione per un essere umano è poter fare coincidere la propria passione con il lavoro, cosa che a te è accaduta!
Sono d’accordo, ma aggiungo che molti sminuiscono una cosa, che per ottenere questo obiettivo ci vogliono veramente le palle… devi avere convinzione, talento… tutti parlano dell’attimo fuggente, del treno che passa una volta sola, ma occorre anche mettersi nelle condizioni di prenderlo quel treno; a me è capitato di dover partire, lasciare i miei cari, girare il mondo, fare sacrifici enormi, e alla fine le cose sono accadute perché ho cercato il susseguirsi delle esperienze, tutte utili, e nessuno ti regala nulla, devi sempre conquistarti le cose che… stanno per arrivare.
Questo tuo ultimo pensiero lo dedichiamo ai tanti giovani che immaginano che il ruolo di rilievo arrivi solo con l’apprendimento tecnico, magari dopo qualche anno di studio…
No, questa è una cosa che sta agli antipodi rispetto al “mestiere” di musicista… occorre mettere a disposizione ciò che ti viene chiesto nel momento giusto, la tecnica è solo un mezzo che ti consente di fare bene le cose, anche un arpeggio in DO maggiore richiede della tecnica, e se in quel momento serve occorre usarlo. Mi è capitato quando andavo in studio di avere richieste del tipo. “Vorrei una chitarra molto dolce, un po’ Mark Knopfler ma anche più classica…”, e lì devi saper subito dare ciò che viene richiesto… bisogna studiare, sempre, ma poi non esiste la formula magica per riuscire, bisogna darsi da fare, programmare un tempo per realizzare se è realmente un mestiere adatto a noi; io fin da piccolo mi sono trovato a suonare la batteria nei matrimoni, avevo dieci anni, e posso dire che è la musica che ha scelto me e non il contrario, e tutto è stato così potente che da subito ho pensato che potesse essere la mia vita. Se invece ti svegli a diciotto anni con la smania di diventare un cantante o uno strumentista diventa tutto più difficile, perche si tratta di scelta repentina, non spontanea, come accade con le passioni vere, che ti prendono da subito e non ti lasciano più. Insomma, bisogna fare i conti con quello che noi siamo realmente e poi decidere la strada per cui siamo più portati.
Un’ultima cosa, prova a guardare oltre il tuo futuro immediato… che cosa vedi di realizzabile per quanto riguarda la tua professione?
Io vedo tante cose che spero si tramutino in realtà. Spero ad esempio di poter condividere il palco con persone sempre più brave: quando suono con strumentisti di alto livello per me è un godimento pazzesco, quindi vorrei alzare sempre di più l’asticella che permette la comunicazione tra musicisti, e più un musicista è bravo e più avviene una comunicazione mentale, momenti in cui non serve assolutamente parlare. Recentemente ho partecipato a tre concerti organizzati da Markbass (endorser MoMark), con Daniel Smith alla batteria e Pippo Matino al basso… abbiamo provato mezz’ora e abbiamo fatto il concerto, e la cosa impressionante è stata la comunicazione mentale, conoscere il tuo strumento, guardarti e capire al volo cose che sembra vadano oltre il comprensibile, e questo aumenta di pari passo con la bravura dei musicisti… ergo, il mio obiettivo futuro è quello di condividere il più possibile il palco con musicisti di alto livello.
E noi ti aspettiamo al varco caro Andrea!
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