Incontro l’arpista Floraleda Sacchi a pochi minuti dal live show con cui a Milano presso la Casa delle Donne ha presentato il suo nuovo progetto, #Darklight (Amadeus Arte /Naxos USA). Uscito venerdì 5 maggio, l’album si è guadagnato un bel posto nella Top5 degli album di classica più venduti su iTunes Italia. Motivi celebri tratti da colonne sonore e tracce di artisti contemporanei – da DJ Tiësto a Max Richter e Roberto Cacciapaglia – sono completamente rivestite con un abito musicale cucito su misura.
In maniera quasi inaspettata e di certo sorprendente l’arpa elettrica ed elettronica vestono brani noti e nuove composizioni della stessa Floraleda regalando atmosfere che suonano insieme lontane e moderne. In un gioco di richiami, echi e contrappunti emozionali, le corde vibrano fascinosamente al tocco garbato della musicista e riescono a trovare un posto assolutamente personale nel panorama odierno.
- Anche la copertina di #Darklight ha un appeal electro-pop… come avete lavorato per la grafica?
- Che spazio credi possa avere la tua musica e questo album oggi nel panorama musicale? A che tipo di pubblico vorresti arrivare?
- Guardando avanti, quali sono i prossimi impegni che ti coinvolgono?
Vorrei partire dal titolo: come mai #Darklight, con questo riferimento di luci e ombre e un hashtag molto social?
Mi sono portata avanti, in pratica! (sorride, ndr). Diciamo che innanzitutto mi piace molto questa espressione perché rappresenta il mio strumento: l’arpa è molto primitiva, viene dell’antichità nella sua semplicità arcaica, ma dall’altra parte è super hightech nella meccanica, quindi ha questi contrasti. È l’unione di uno strumento acustico usato con tecniche antiche, anche del medioevo, con l’elettronica moderna.
È, quindi, legato allo strumento in sé o c’è dell’altro?
Ho voluto anche ispirarmi a un detto giapponese secondo il quale il grande maestro di musica è colui che sa arrivare fino al confine tra il suono e il rumore. È molto difficile da definire, è un limite tra luce e ombra che ti porta a pensare di andare lontano; c’è, poi, quella teoria secondo la quale nel momento di dolore intenso si vedrebbe una luce scura. Anche qui c’è il rimando all’unione di luce e oscurità insieme, una percezione estrema che però è anche di grande apertura. Mi piaceva anche questa idea un po’ psichedelica, questo estremo che unisce.
Nella tracklist hai raccolto colonne sonore, successi e composizioni personali: quali sono stati i criteri di scelta?
Ho iniziato un po’ sperimentando negli ultimi due anni e ho poi selezionato questa raccolta lo scorso anno. Ho deciso un po’ il programma che avrebbe dovuto avere, ho commissionato dei brani e altri li avevo già e alla fine ho capito che si poteva fare un disco. Ho cercato di portare avanti una sperimentazione sul suono in una direzione che non era ancora stata fatta e ho scelto i vari brani in base a ciò che mi piace, cercando pezzi che avessero un’atmosfera che rimandasse a certi luoghi, che possono essere mentali… volevo un’idea di un percorso e, insieme, un’unità a delle cose che erano diverse. E credo che, alla fine, la coerenze generale sia data proprio dal suono dell’arpa, così particolare e caratterizzante.
Il tuo album ha debuttato nella Top5 di iTunes classica: che cosa credi abbia apprezzato e colto il pubblico di questo tuo lavoro?
In pratica negli ultimi anni ci sono stati musicisti che hanno veramente oramai mischiato gli archi, il pianoforte e gli strumenti classici con l’elettronica e questo è molto interessante. Io l’ho fatto con uno strumento che forse non è così comune in questa fusione, credo sia questa la cosa diversa, però alla fine ha una sonorità che credo funzioni. La gente, ascoltando l’album, ritrova cose che le sono familiari e, insieme, dall’altra parte c’è un sound nuovo che ti appassiona. Poi è molto difficile spiegare perché questo vada di più di un altro prodotto che ho fatto prima…
E come hai lavorato in studio per registrare questo album e in particolare come è nato We Arrive From Far Away?
Volevo fare qualcosa di assolutamente vivo e legato al momento in cui lo registravo; per questo motivo è stato registrato in un solo take, senza elaborazione successiva. Mi sono fatta una traccia armonica, legata ad armonie rinascimentali, e poi mi sono veramente lasciata andare all’improvvisazione. Successivamente abbiamo lavorato tantissimo in fase di mixaggio per elaborare una serie di effetti che dessero un senso di passaggio, come verso una dimensione fuori dal tempo.
È un po’ l’idea era quella del multiverso, secondo la quale le cose possono succedere contemporaneamente in dimensioni diverse; non ci sono più presente e passato, ma emerge un’idea di immortalità, di allargarsi in direzione orizzontale. Sono intervenuta in questa direzione, per aggiungere echi e riverberi che dessero una sensazione di straniamento per cui non sai più dove sei, cosa hai suonato o non hai suonato. We Arrive From Far Away non ha una grande preparazione, in realtà, anzi ha quasi un approccio che potrebbe essere più jazzistico anche se non ha nulla del jazz.
Generalmente si tende ad associare uno strumento come l’arpa alla classica, non certo alla musica dance o all’elettronica. Come sei arrivata a questa contaminazione e che tipo di formazione hai alle spalle?
Da qualche anno sperimento con l’elettronica e mi piace molto lavorare sul suono, su quella che è la sua vibrazione. Vedo l’elettronica come un’espansione delle possibilità sonore e, in questo caso, del mio strumento ma potrebbe anche valere anche per un altro; significa andare oltre, allontanare il limite e arricchire quello che si può fare.
Per quanto riguarda la mia formazione è classica e suono tuttora con repertorio tradizionale classico. Non mi preoccupo della distinzione di generi e non vedo perché devo limitarmi a fare una sola cosa: un musicista fa la musica che ama, indipendentemente dallo stile. E tra i miei ascolti c’è tanta classica ma anche elettronica, spazio tra vari generi perché sono onnivora, non ho preclusioni.
E in merito alla copertina, cosa ci puoi raccontare?
Ah, guarda, in questo disco ci sono tantissimi cari amici. Il fotografo che ha firmato lo scatto è un bassista, siamo stati compagni di conservatorio, ma ora è passato alla fotografia di moda. Quando voglio qualche foto particolari vado da lui: gli spiego la mia idea e lui riesce sempre a intercettare la mia intuizione.
Ad accompagnare il disco c’è anche un lungo libretto…
Mi piaceva l’idea di fare qualcosa di un po’ personale, diverso da quello che avevo fatto prima, potendo esprimere anche la mia idea di musica e mi sembrava anche interessante, per chi ascolta, conoscere la mia visione dei brani. Per questo motivo ho descritto dettagliatamente per ogni traccia quello che ho fatto.
Chiudiamo con il capitolo dei live: che cosa hai in programma?
In autunno sarò in tour con questo disco, dopo le presentazioni a Milano, Firenze e Roma è vorrei portare il progetti nei teatri in Italia e all’estero. È una cosa un po’ nuova per cui finché il disco non è uscito mi era anche difficile pensare a come promuoverlo. Posso dire che ho già parecchie date fissate per settembre e ottobre.
Ma la musica, in definitiva, che cos’è per te?
La musica è vibrazione e quindi è vita; non saprei come altro definirla.
La tracklist di #Darklight:
- Andras (Max Richter)
- Temple of Sound (Roberto Cacciapaglia)
- Hammers (Nils Frahm)
- Requiem for a Dream/Lux Aeterna (Clint Mansell)
- Welcome to Lunar Industries (Clint Mansell)
- Adagio for Strings (Samuel Barber/Tiësto)
- Said and Done (Nils Frahm)
- Europe After the Rain (Max Richter)
- Silencio du Park Guëll (Joe Hisaishi)
- Antartica (Roberto Cacciapaglia)
- The Beatitudes (Vladimir Martynov)
- We Arrive From Far Away (Floraleda Sacchi)
- Till the End (Ólafur Arnalds)
- Near Light (Ólafur Arnalds)
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