di Elena Nesti
«Pensare per album» è finito.
Si spegne la fanfara in sottofondo all’annuncio del nuovo album mesi prima, l’attesa creata intorno ad una data d’uscita, la promozione mediatica intorno a questa, la mancanza di pubblicazioni fino a due-tre anni dopo, fino all’album successivo.
Basta con le canzoni che restano nel cassetto, l’imperativo nell’industria musicale è ormai di iscriversi nell’attualità, nell’immediato.
«Le belle canzoni non hanno data di scadenza», certo, certo.
Ma il discorso è leggermente diverso. La distribuzione online permette di far uscire delle canzoni svincolate da un progetto di album, canzoni che hanno un senso nel qui e ora e che si ha il sentimento che forse non troveranno il loro spazio in un progetto futuribile. Merito dell’alleggerimento degli iter di produzione, che permetterebbe di cavalcare istantaneamente l’onda di una data estetica di suoni, la cui scadenza non va oltre una manciata di mesi. Se l’elettronica ha capito da tempo questa opportunità tecnica del cotto e servito, il pop ci sta mettendo forse un po’ più di tempo, ma sembra stia iniziando a sfruttarla (non vi scaldate, l’Italia ancora deva capire cosa sia l’electro-pop, temo che i tempi da noi andranno un po’ più per le lunghe…).
Il tempo di prendere la distanza da una serie di canzoni e ritrovare a posteriori un tema comune che giustifichi la loro coerenza in un album? La riflessione approfondita su di un tema che accomuna diverse canzoni e la decisione di sceglierlo per la scrittura di un prossimo album? Eppure pare si faccia ancora così. Ma non solo. Gli artisti si stanno avviando verso forme disgiunte per un’incapacità di tenere fede a un progetto o per un diffusissimo problema di attenzione – problema che rispecchia l’attuale alienazione del nostro modo di informarci e di stare al mondo?
O forse c’è fin troppa lucidità sui vantaggi in termini di marketing di operazioni che negano il concetto di «uscita» e di «album» da parte degli artisti e dei propri team.
Vediamone alcuni casi, fino a un passaggio più recente che mi sembra significativo.
Nel 2013 Beyoncé pubblica a sorpresa il suo opus omonimo con Columbia (gruppo Sony) e fa lo stesso con Lemonade nel 2016. Stavolta l’album è una produzione di famiglia, HBO ha l’esclusiva dei film-video che raccontano l’album: il link-aggio dei video da parte dei media nel più generale buzz del voler far parte del passa-parola in tempo reale (nel 2013, più di un milione di tweets in 12 ore) fa salire astronomicamente i ricavi della pubblicità. Risultato: i costi dell’album stra-coperti, con zero budget impiegato nella comunicazione sull’album.
Nel 2015 Kanye West mette gratuitamente, uno dopo l’altro, a disposizione su Soundcloud i singoli di quello che uscirà nel 2016 come il suo album The Life of Pablo. O forse no, perché intanto riscrive i pezzi, cambia la tracklist, che non include più i pezzi già usciti, cambia il nome dell’album, che esce con due giorni di ritardo rispetto alla data annunciata.
Un’operazione che richiama i fan all’attenzione: se volete questa versione, dovete acquistarla ora perché domani al suo posto ci sarà un prodotto differente. Operazione che pone ovviamente degli interrogativi circa la perennità e la finitezza dell’opera.
L’hanno fatto e lo fanno star afro-americane (Beyoncé, Rihanna, Kanye West) legate al mondo del rap, ma soprattutto che uscivano sulla piattaforma Tidal, patrocinata da Jay-Z. Ci hanno provato gli U2 e i gli ormai «indipendenti» Radiohead.
Ma a parte gli album, qualcosa di ancor più significativo, a parer mio, accade con i singoli. In tempi non sospetti, l’ormai lontano 2002, George Michael fece uscire a sorpresa Freeek! e Shoot the Dog, brani che finirono poi nell’ultimo album di inediti dell’artista, nel 2004, Patience. In una rara intervista promozionale ai microfoni della BBC Radio1, George annunciò ufficialmente che Patience sarebbe stato il suo ultimo progetto discografico di inediti in formato “album”, e affermò che per il futuro sarebbero usciti solo brani singoli, a sorpresa, senza alcuna promozione mediatica e fruibili solo in rete (anche gratuitamente). Parte del sunto del suo pensiero era che – secondo lui – il mercato discografico generato dalle major, nell’era della rete e dei download, si sarebbe trasformato in un veloce fast food musicale, dove il pubblico sarebbe stato sempre meno attento, e avrebbe speso sempre meno tempo per soffermarsi su un progetto come quello di un album nella sua interezza. E in effetti, Patience è rimasto l’ultimo album di inediti dell’artista inglese.
Ha fatto lo stesso David Bowie nel 2013 con l’uscita del singolo Where Are We Now?, che ha lanciato l’uscita dell’album immediatamente successivo, ed ora, il 15 aprile, quella che è forse l’erede di entrambi, Lady Gaga è uscita con il singolo inedito The Cure, quattro mesi dopo l’uscita dell’album Joanne. Un singolo che per suono e per tematica, in effetti, non ha niente a che vedere con il concept dell’album Joanne, ma segna il suo passaggio sul palco del Festival Coachella dal quale presenta la canzone; riesce a spostare completamente l’attenzione dalla sua presenza lì «in quanto» sostituta di Beyoncé in dolce attesa e anzi rinnova l’attenzione sulla propria produzione in vista del tour mondiale: attenzione, non vedrete solo Joanne sul palco, Lady Gaga non si riduce all’ultimo album uscito, ma è un’artista in continua creazione. Risultato: l’immagine dell’album Joanne è rafforzato come opus coerente e senza accozzaglie – e l’immagine dell’artista pure. Punto di approdo molto diverso da quello dei colleghi tidaliani a lei contemporanei, che nel delirio di onnipotenza del random fanno della forma gran parte del contenuto dei loro lavori.
Ecco dunque che un’altra grande pop-star, distribuita in modo «tradizionale» dalla majors Universal e non in esclusiva con Tidal, coglie a mio parere il vero vantaggio artistico della distribuzione online.
Certo una che in termini di attenzione mediatica se lo può permettere e che afferma così la padronanza del proprio progetto artistico all’interno del sistema-major.
Che poi a Universal convenga (che si prepari una re-edizione di Joanne?), è un altro paio di maniche, o meglio di tacchi. Certo, finché non diventa la norma e la pratica più diffusa.
Non soddisfare aspettative ma spostarle sempre un po’ più in avanti, poter contare su un pubblico ricettivo che in ogni caso e indipendentemente dai tempi discografici è in attesa perenne di qualcosa. Lady Gaga, maestra in questo modus operandi, ha tratto tutto il beneficio di ciò che aveva già profetizzato George Michael.
E poi venendo al dunque, The Cure è perfetto, dalla struttura melodico-armonica al sound iper-attuale. Un brano che ha valore a sé stante. Come dovrebbe sempre essere per una buona canzone del resto, no? Lontana dal bisogno di un sistema esplicativo costruito intorno, dai discorsi da conferenza stampa. Una buona canzone senza un album, si o no?
Il dibattito è aperto.

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