Dopo il fresco rinnovo contrattuale con Mediaset per tutto il 2017 e alla vigilia della nuova edizione di Matrix in cui venerdì 24 febbraio, mette in scena uno speciale dedicato alla storia del Bagaglino, Piero Chiambretti si presta a una lunga intervista in cui il tema è la tv d’autore, quella che tutti vorrebbero vedere ma che rimane criptata perché ormai la tv italiana è composta di format stranieri. Chiambretti è principalmente un autore prima ancora di uno showman. Ha portato la tv in piazza su Rai Tre ancor prima di Santoro, ha sdoganato le “Markette” promozionali su La7 e ora su Mediaset… che farà o meglio ancora, cosa gli faranno fare?
Piero, perché la tv generalista ha così paura di sperimentare nuovi format?
Dal mio punto di vista, ogni volta che vado in onda cerco di essere migliore di quello che ho fatto prima, quindi quella “griffe” che contraddistingue i grandi autori, devono portarsela dietro per secoli altrimenti grandi autori non sono, poi ci sono momenti storici della televisione in cui è meglio cambiare in modo sistematico e nel mio caso, nei miei primi otto anni a Rai Tre ho sempre cambiato ogni anno, stile, programma, fasce orari e obiettivi, però ero supportato da una rete che spingeva in quella direzione, lo scenario della televisione, politico, storico era un altro e quindi c’era quella consapevolezza che si stava costruendo, quella che poi fu definita, l’altra televisione. Adesso i tempi sono molto cambiati, le televisioni curiosamente sono 900 ma poi le vai a verificare, e scopri che è una sola. Almeno dal punto di vista dei contenuti. Questo accade perché la replica di tutti i programmi, i fegatelli, le clonazioni fanno si che non c’è molta differenza tra il primo canale e il quinto, tra il canale 18 e il 37 e via dicendo. Nello specifico io cerco di adattarmi all’ambiente in cui vivo, per cui per me Mediaset è per definizione la televisione dello studio tv, la tv dei lustrini, è la tv dell’importazione lecita dell’ entertainment americano, con tanto di ballerine, etc… che è poi quello che faccio io ma ovviamente con gusto ironico e autoironico. Certo se domattina dovessi cambiare azienda, immediatamente l’imprinting cambierebbe secondo la linea editoriale dell’azienda. Se tornassi a Rai Tre mi verrebbe in mente di tornare subito al modello della tv verità, la tv fatta in strada, in esterna, insieme alla gente perché questo è l’imprinting che ho avuto da Rai Tre. Se invece dovessi stare su Rai Uno… anche lì, bisogna mettere insieme Canzonissima, la Lotteria, Sanremo ma anche il servizio pubblico, quindi mi scatterebbe probabilmente la voglia di mettere insieme una specie di Telethon, fatto ovviamente in modo ironico.
Insomma come nel film “Zelig” di Woody Allen, cambi identità secondo la rete che frequenti.
E’ inevitabile anche se cerco di mantenere il mio stile. Diciamo che il contesto fa l’idea.
E se il contesto rimane strettamente nazionale, non riusciremo mai a esportare i nostri programmi. Ricordo che una volta in Martinica, accesi il televisore in hotel e vidi “Drive In” sottotitolato in francese, oggi non si esporta più, a parte casi eccezionali come il “Ciao Darwin” che Bonolis vendette ai cinesi o come nel recente caso di “Undressed” prodotto da Magnolia e venduto a 14 televisioni estere. E’ un problema di mercato globale o di scarsa creatività italiana?
Credo entrambi, sai, per fare un progetto di respiro internazionale bisogna pensarlo, scriverlo già con una serie di valori che possano essere universali… e perciò ci vogliono degli autori in grado di farlo, aldilà del fatto che molto spesso i format che compriamo all’estero sono davvero orribili, però chi li ha immaginati l’ha fatto con una visione internazionale, quindi è stato bravo comunque, perché ha saputo cogliere in Francia come in Germania, in Olanda come in Israele quei valori ideali per intercettare il pubblico della televisione. L’altra riflessione importante, che può sembrare una battuta banale ma non lo è, è questa: cioè la valutazione dei numeri. Se si dice che quel programma è stato visto da dieci milioni di persone, non si dice però che altri cinquanta milioni non l’hanno visto, quindi da un punto di vista matematico, dato che si parla di numeri, si può parlare di successo sul solo dato dei televisori accesi? E di quelli spenti non ne parliamo? Eppure il dato di disinteresse, di assoluta non incidenza dovrebbe essere considerato di più. Si fa quindi una valutazione all’interno di un micro mondo che è di poco conto rispetto al macro mondo, quindi lascia il tempo che trova. Quindi è evidente che chi riesce a trasferire in pubblici diversi e lontani i medesimi sentimenti di attrazione è bravo, indipendentemente dal valore del programma stesso.
C’è stato un programma che avresti voluto fare ma che non ti hanno dato la possibilità di farlo, o un tuo format che non è stato capito dall’editore di riferimento?
Beh, due anni avevo proposto un mio format di infotainment che non è stato del tutto compreso, si chiama “Testate”, un programma che parte e si sviluppa dalla redazione dei quotidiani, non solo quelli nazionali, ma anche regionali…. un’idea che per certi versi ho rivisto in qualche modo nell’ “Edicola” di Fiorello che però ho visto due anni dopo. Poi ce ne sono altri che ovviamente non ti racconto perché sono convinto che siano ancora validi. E visto che in giro c’è gente che pensa solo a rubare le idee altrui, convinta però di avere avuto l’idea per primo, preferisco non parlarne per non giocarmi quelle poche carte che ho.
Ti piace la Rai attuale?
Il compito della Rai non è facile… i paragoni con gli altri broadcast non reggono. Un conto è essere una tv di Stato, con mille problematiche differenti e ramificate ovunque, dall’ informazione allo sport, al servizio pubblico, etc… un conto è un network privato che può utilizzare strategie diverse e più agili, magari con strategie legate a un brand che viaggia in tutto il mondo, come Sky e Discovery ad esempio, quindi il confronto diretto non si può fare, ma certo dal direttore Campo Dall’Orto che considero una persona intelligente e molto attento alle nuove frontiere della comunicazione, mi aspettavo qualcosa di più, come la voglia di trasformare il palinsesto in qualcosa che non si era mai visto, tipo accorciare le prime serate, per dare più forza alle seconde e anche per dare spazio alle terze….cercando di intercettare tre pubblici diversi ma legati da un fil rouge di un programma che poteva avere delle finestre aperte sugli altri, mi aspettavo insomma qualcosa di più almeno su una delle tre reti, invece nella maggior parte dei casi hanno confermato ciò che c’era, basta pensare a Rai Tre che ancora ha dei programmi che andavano in onda quando c’ero io…
In effetti quando si leggono i dati dei target delle reti Rai non c’è da stare allegri. Rai Uno ha un target medio di 65 anni.
Il mezzo televisivo esisterà sempre, solo che è destinato a invecchiare inesorabilmente. Quindi tutte quelle fasce che dovevano alimentare le altre, come accadeva un tempo, ora non si sono più riprodotte, perché le nuove generazioni hanno scelto altri mezzi di comunicazione e anche di svago. Se non fossero stati inventati internet e i social, i ragazzi, se volevano fruire e condividere delle cose dovevano per forza affidarsi alla tv, ma dato che il mondo è cambiato, la vecchia logica televisiva di “costruire” un pubblico affidabile e partecipe, dalla tv dei ragazzi in poi…. è tramontata per sempre. Mia figlia di cinque anni ad esempio ogni tanto la tv la guarda perché c’è il film o il cartone animato…ma la sua frase preferita è “Papà registra” perché è più portata a vedere altro, l’I Pad o i video sui telefonini, etc… Quando senti “Papà registra” vuol dire la televisione è finita per forza.
Futuro incerto quindi…
Certo quelli che arriveranno dopo di noi avranno il problema di gestire questa situazione, ridare importanza al mezzo televisivo, che è destinato ad avere successo solo nel caso degli eventi, che si chiamano così proprio perché accadono di rado, come i Mondiali, le Olimpiadi, la finale di un talent o l’attentato, il caso di cronaca nera, etc… che ci sia un nuovo corso della televisione è evidente, basta pensare agli anni cinquanta. Quando arrivò la televisione a quell’epoca, ma anche negli anni ottanta con l’avvento della tv privata, si costruirono i palazzi della televisione, studi e magazzini grandi come vere e proprie fabbriche, oggi invece puoi fare la televisione con un telefono cellulare 4K, ripresa e montaggio inclusi.
Se ti chiamassero a inventare un nuovo talent show, genere inflazionato ma ancora destinato a durare a lungo…cosa ti inventeresti?
Non credo che accetterei comunque, ma probabilmente il mio talent preferito potrebbe essere un talent sulle giure, cioè una giuria che giudica e sceglie i giurati che compongono le giurie dei talent. Farei i casting delle giurie. In effetti se ci pensi bene, in queste giurie c’è sempre uno che non si capisce perché è in giuria. Forse gli autori hanno pensato che mettendone uno del nord si cattura un certo pubblico, così come uno del sud, insomma sono logiche di un marketing abbastanza risibile, come del resto abbiamo visto anche a Sanremo. Non si può fare una giuria di qualità con gente che non ha mai inciso o prodotto un disco o che non sa leggere uno spartito anziché un testo di una canzone. Basterebbe chiamarli testimonials o ospiti anziché giurati e tutto suonerebbe al meglio. In effetti a Sanremo Giovani di Carlo Conti, l’anno scorso mi trovai in giuria in buona compagnia, ad esempio con Giovanni Allevi, e facemmo passare giovani come Gabbani o Meta che poi quest’anno hanno avuto gran successo….Io accettai di stare in giuria solo a condizione di condurre il dopo Festival cosa che a parole mi avevano garantito, poi invece saltarono fuori obiezioni di qualche funzionario, perché avevo un contratto in Mediaset. Se penso che quest’anno il Festival praticamente l’ha fatto Mediaset insieme a Conti… Un anno fa non ci fu lo sdoganamento per il dopo Festival, invece quest’anno c’è stato per il Festival. Se penso che ho ascoltato seicento canzoni, di cui cinquecento orribili, fino al punto di farmi venire l’otite…
Si chiude e ci si saluta sull’idea del casting delle giurie. Idea geniale del geniale Chiambretti che ovviamente non vedremo mai in tv, ma Piero ci tiene a ribadire che non ama andare in onda per forza, ma solo dove c’è qualità. Se tutti facessero come lui avremmo una televisione migliore.
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