Quest’orchestrina che un “qualche dio” sta mettendo su nel suo “qualche paradiso” mi sconcerta.
Nel mio immaginario sono tutti artisti congelati nella loro immagine degli anni ’70. Ogni volta che muore qualcuno esclamo: “Ma povero! Così giovane, così bello!“.
Le foto commemorative mi restituiscono poi uomini bolsi e depressi, pelati e rugosi, ma tutto sommato fortunati ad essere arrivati alla loro età dopo tutto quello che si sono calati.
Faccio i conti degli anni: “…quando lui aveva vent’anni io avevo…“. Caspita, se ne sono passati! Tipo quaranta. Forse di più. E io che continuo ad ammucchiare la loro musica nelle playlist di Spotify, che la canto forte in auto, che la ascolto quando voglio scrivere, mi sento improvvisamente patetica.
Però, però, poi la riflessione diventa un’altra: la nostra generazione sgangherata di ribelli da salotto o poco più, cresciuta a rock e concerti, è ancora bella tosta. Non lasciamo la scena, chi per intelligenza, chi perché si è saputo integrare o riciclare, chi perché si è distratto e non si è proprio filato i ritmi del tempo. E soprattutto sa ancora emozionarsi per una canzone. Sa riconoscere la buona musica, un buon testo, chi arriva e chi invece resterà una tinca, una comparsa a vita.
La foto di Keith Richard che fa il nonno di un bambino biondo e palesemente educato mi aveva intristito, poi ne ho vista un’altra con la sua nuova compagna, una figa spaziale, e mi sono rincuorata.
No, non credo che moriremo mai. Non moriremo sul serio, dico.
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