Nel 1979 ero un ragazzino. 14 anni, la scuola, lo sport, la musica. Quella musica era favolosa. Sono spesso accusato di essere retrò.
A chi mi dice così snocciolo 40 o 50 nomi di artisti e gruppi italiani e stranieri di quegli anni e chiedo di fare lo stesso con artisti e gruppi degli ultimi tempi e poi valutare le differenze. Ovviamente nessuno che abbia un minimo di conoscenza musicale è in grado di dare una risposta che abbia un vago senso. Mi piace vincere facile, e se c’è da combattere con i poppanti, fan invasati dei One Direction o di Shakira, abbandono il campo perchè tanto è inutile. Capiranno con il tempo quando perderanno la testa per Battisti e i Pink Floyd. C’è un tempo per tutto.
Torno al 1979. Ascoltavo musica, di ogni genere. La radio era spesso accesa, compravo dischi e registravo cassette. Di lì a poco avrei avuto il primo Walkman Sony, l’aggeggio che cambiò la vita degli appassionati di musica, vent’ anni prima dell’Ipod e che incollò una generazione di adolescenti allo stereo per passare i dischi sui nastri e ascoltare quindi la musica dovunque. Eravamo tutti attrezzatissimi. Avevamo anche lo sdoppiatore dell’ingresso della cuffia, per ascoltarla insieme alla fidanzata.
Tra le canzoni che ascoltavo c’erano quelle di un ragazzo magro, con i capelli lunghi. Era uscito un suo disco molto particolare, diversissimo da tutti gli altri. Melodie bellissime e molto insolite, testi colti, a volte addirittura filmici, che quasi vedevi, con citazioni tra il sociale e il letterario.
Rimasi ipnotizzato.
C’erano “Il duomo di notte”, “La pazienza”, la pungente, storica invettiva contro un’intera città di “A voi romani”, le due facce in apparente antitesi di “Milano e Vincenzo”. Ma soprattutto, ricordo che passavo giornate intere ad ascoltare “La sedia di lillà” e quel lungo finale strumentale accompagnato dalla voce in falsetto del capellone magro. Non mi stancava mai. Probabilmente insieme a “Wuthering Heights” dello stesso periodo, di Kate Bush, e a “Let it be”, la canzone che ho ascoltato più volte nella mia vita.
E pensare che quel falsetto Al non voleva inciderlo… Lo aveva inserito nel provino della canzone ma doveva essere sostituito dai violini. Per fortuna lo convinsero che quello era un suo marchio d’autore e che il finale andava fatto così.
Lui, Alberto Fortis (Al), aveva 24 anni, io 15. Diventò per me un mito.
Proprio in quella occasione cominciai a pormi quella domanda che per anni mi avrebbe inseguito: “Come fa uno a scrivere una canzone così ? Cosa gli succede, cosa gli passa per la testa ?”. Una domanda che mi avrebbe portato anni dopo a scrivere un libro.
La storia di quel disco era stata tormentata, a causa di Vincenzo Micocci, il discografico che aveva bloccato Al: il disco non usciva e il contratto in essere con la sua casa discografica non consentiva ad Al di pubblicarlo con altri. In fin dei conti meglio così, perchè l’episodio consentì ad Al di arricchire l’LP con una nuova canzone, “Milano e Vincenzo” appunto.
Al viaggiò tra Milano e Roma, sede della IT di Micocci, ogni settimana per oltre un anno. Tutti i martedi. Restava a fare anticamera fuori dall’ufficio del manager – ribattezzato mister martedì: “Scusa Alberto, vediamoci martedi prossimo” diceva ogni volta – e non succedeva mai niente.
Dopo tanta attesa finalmente la svolta. All’appuntamento a Roma per la decisione finale sull’uscita del disco c’erano tutti. C’era anche il mitico Ennio Melis, direttore della RCA a cui la IT faceva capo. Melis era un dirigente capace, uno che ha fatto la storia della musica in Italia e che aveva un gran fiuto, ma che evidentemente prendeva comunque le sue cantonate. Era il tipico “uomo di potere” dell’Italia di quegli anni, vicino al Vaticano e a quella Roma un po’ papalina e un po’ politica in cui si decidevano molti destini.
Al Fortis suonò al piano le sue canzoni.
Tutte, una dopo l’altra. Anzi, quasi tutte.
Melis rimase impassibile e alla fine gli disse: “Ma non ha qualcosa di più Fortis?”
Il ragazzo aveva sopportato per troppo tempo, e aveva già pronta “A voi romani”. Glielà piazzò lì, seduta stante, come un diretto al mento. Fu la scelta giusta.
I romani accusarono il colpo e lo liberarono. Anni dopo ci sarebbe stata la riappacificazione con Vincenzo Micocci, che nel frattempo era diventato, suo malgrado, di gran lunga il Vincenzo più famoso d’Italia.
Fu grazie ad Alberto Salerno, che credette in quel ragazzo e lo portò alla Polygram, che quella situazione si sbloccò definitivamente e quei capolavori videro la luce. Il successo di quel fantastico primo disco, scritto da un ventenne, è storia.
Alberto Salerno fu il produttore di Al, prima di scoprire e portare al successo altri artisti di grandissimo spessore della nostra musica.
Dopo quel disco, chiamato semplicemente “Alberto Fortis” Al sfornò tantissimi altri successi: “Settembre”, “La nena del Salvador”, “Angelo”, “La grande grotta”, “Dentro il giardino”, “Fragole infinite” e tante altre, fino a “Do l’anima” di quest’anno.
35 anni dopo quel 1979, quando ho deciso di scrivere un libro sulla musica italiana degli anni ’70 ed ’80, ho cercato Al, l’ho trovato grazie all’aiuto di Alberto Salerno e l’ho incontrato per intervistarlo sulla sua vita e sulle sue canzoni.
I momenti precedenti al primo incontro non sono stati facili, perchè basta poco per distruggere un mito. Non è successo. Dopo il primo incontro, altri tre per completare l’intervista e poi molti altri, perchè era iniziata una bellissima amicizia.
Con quel mito di tanti anni fa ora faccio grigliate (di pesce ! Al non ama troppo la carne), chiacchiero un po’ di tutto e abbiamo addirittura lavorato insieme ad un progetto.
Oggi ho incontrato Al per portargli (un po’ in ritardo a dire il vero) una copia del libro. Mi ha chiesto di firmarla, come hanno già fatto altri mostri sacri della musica italiana. L’ho fatto sorridendo, pensando a quanto la vita sia strana.
Per me che vivevo al sud, Milano è rimasta sempre quella dei “quadri grigi, le luci gialle ed i cortei” di fine anni ’70 di “Milano e Vincenzo”. Un ritratto perfetto. Ed è così anche ora che ci abito. Milano è quella.
Quando oggi ascolto il fantastico finale di “La sedia di lillà” invece, non penso più ad un amico di Al costretto su una sedia a rotelle, come ho fatto per anni. Ero convinto che fosse un suo amico, per come si svolgeva la storia. Ora che Al mi ha raccontato la vera storia, penso allo zio Ugo e alla sua incredibile vita di uomo attivo e pieno di energia, rimasto tetraplegico per una caduta da una scala. Era lui l’uomo costretto sulla sedia di lillà.
E insieme a questa storia, tante altre.
L’artista, mentre la percorre, guarda la vita attraverso la lente della sua sensibilità, per estrarne un concentrato da offrire agli altri.
Al è uno di quegli artisti da ringraziare, per aver reso migliori con il loro talento molti momenti della vita di persone che nemmeno conoscevano.
P.S. Senza l’intuito di Alberto Salerno chissà cosa sarebbe successo a quel primo disco di Al. Il mio mito (che è ancora un capellone magro !) mi ha raccontato di aver dedicato proprio ad Alberto Salerno e a Claudio Fabi, arrangiatore dei brani, un pezzo di quell’album, “Sono contento di voi“, in segno di gratitudine per averlo aiutato in quel momento cruciale della sua carriera. Io ho la fortuna di avere Alberto Salerno come amico e quindi ho ringraziato anche lui. Perchè, incredibilmente, un talento enorme a volte non basta per emergere in questo mondo.
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