Serata finale del Festival di Sanremo 2020, le diplomazie si nebulizzano e la guerra è finalmente palese.
Basta con la matriciana e la carbonara, viva il tossico paninazzo yankee; al bando la frutta fresca, sì all’acqua zuccherata con il 12% di succo vero; lunga vita alle “comode” rate e via tutti a permetterci le scemenze più inutili; al bando la cultura in qualsiasi forma, ar gatto la letteratura, ar sorcio il teatro, assolutamente vietata la buona musica, soprattutto basta con la preparazione anche minima in qualsiasi campo: l’Università della vita è più che sufficiente. L’importante è che il messaggio “arrivi”, se il destinatario non è in possesso dei minimi requisiti di sistema facciamo scendere il livello. Il target è lì che aspetta la patente di esistenza: “acquisto ergo sum”.

Tutti felici e contenti, come in un villaggio turistico.
Sono cinque giorni che si assiste ad una lotta di opinioni, tutti contro tutti e con schieramenti variabili e ondivaghi, al riguardo di una manifestazione sconcertante: il settantesimo cosiddetto Festival della Canzone Italiana.
Tanti e appetitosi gli oggetti del contendere, in ordine sparso i più gettonati: il presentatore-direttore artistico, il cast, la qualità delle canzoni e degli interpreti, gli ospiti, i costi; tutti abbiamo qualcosa da dire e non vediamo l’ora di farlo, cominciamo subito: perché “cosiddetto” Festival della Canzone Italiana? Perché non è rappresentativo della canzone italiana, è principalmente una trasmissione televisiva e come tale fondata sulla spasmodica rincorsa agli ascolti, giustificatissima ma in contraddizione palese con la ragione sociale. La canzone c’è, ce ne sono tante, ma in convivenza con uno spettacolo di arte varia che è ormai un coinquilino invadente come in un incubo. Ciò premesso passiamo a quanto avvenuto nella finale, dopo aver sentito Keith Jarrett che esegue “Over the rainbow” su Youtube, a scopo depurativo.
Il presentatore-direttore artistico della manifestazione, Amedeo Sebastiani in arte Amadeus, appare essere una persona garbata e gradevole, poi dipende sempre dai gusti; soprattutto non soffre di quell’automatismo robotico che affligge qualche collega sia maschietto che femminuccia. Per l’occasione è affiancato da Rosario Fiorello, il cui talento è indiscutibile e la cui presenza in questa occasione appare risolutiva: in genere il suo passato da intrattenitore gli viene rinfacciato ma invece costituisce il suo inarrivabile punto di forza.
Fiorello ha il continuo polso del pubblico, un senso del ritmo infallibile, una mimica e una dinamica incalzanti, una capacità innata e ampiamente collaudata di sfruttare e cavalcare qualsiasi spunto per distrarre, interessare e divertire chi ascolta o assiste; il materiale dei suoi sketch è svelto e fruibile, leggero ma mai volgare, ed ha la caratteristica di riuscire ad essere sempre sorprendentemente coinvolgente.

Unica perplessità la continua ricerca del duetto con i cantanti, sorta di forca caudina delle sue esibizioni: uno potrebbe avere piacere di sentire singolarmente l’ospite in azione, puta caso.
In quest’ultima serata apre Zarrillo con una canzone semplice ed efficace ma almeno canta sul serio, interpreta, rischia con la voce; segue Elodie la cui mise vagamente intrigante celebra i fasti della “disavventura” di Patsy Kensit nell’86 ed è molto più interessante del contenuto (?) del suo brano, molto in linea con l’attuale mainstream italiano e scritto infatti da uno degli eroi del medesimo.
Enrico Nigiotti neanche all’ultima serata si presenta con la chitarra accordata, in compenso il pezzo non è che meriti questa raffinatezza, pur esibendo alla direzione un gigante come Celso Valli.

Sempre Valli si presta a dirigere il brano di Irene Grandi, concreta e gradevole, e successivamente l’esecuzione di Alberto Urso, qualcosa di molto lontano dalla sufficienza, un irritante finto canto lirico (mai manchi…) al servizio di una canzone inesistente.
Segue Diodato, intenso e sicuramente sul pezzo, lui figlio del tradizionale cantautorato italiano. Il suo brano sin dall’inizio pareva candidato al podio, ed in effetti alla fine ha vinto lui, ha vinto tutto quello che c’era da vincere. E finalmente, direi, finalmente vince chi merita. Successivamente Masini ricalca le orme di Zarrillo e Irene: mestiere, onestà, impegno, poche ciance e molta sostanza.
Il pop italiano è quello di questi tre veterani, se non piace pazienza ma almeno non si spaccia per altro.
A proposito anche Leo Gassmann non è male e neanche la canzone, speriamo che l’ingombrante cognome lo aiuti a superare indenne questo momentaccio in cui le nuove proposte vengono bruciate e poi triturate dopo pochi mesi, altra meraviglia dei maledetti Talent.

Tiziano Ferro è una scoperta: simpatico, gradevolmente istrionico, come del resto Sabrina Salerno, potrebbero formare una bella coppia di conduttori e pure la Leotta ha sicuramente un suo perché. Chi invece il palco se lo mangia proprio è Piero Pelù, sessantenne d’assalto che disintegra qualsiasi ridicolo pischello propinato e pompato come creativo e trasgressivo, ma per carità.
Levante propone una canzoncina carina, lei è carina, sicuramente una ragazza determinata, se son rose fioriranno ma per ora non una virgola è cambiata nella storia della canzone italiana.
Ecco quindi i Pinguini Tattici Nucleari, perfetti per ricoprire degnamente lo spazio lasciato dallo Stato Sociale nel repertorio delle recite di fine anno dei bambini delle Elementari, ed anche questa è una scelta di carriera, dopodichè finalmente Achille Lauro sul palco, a suo modo protagonista di una circostanza storica: non esistendo aggettivi adatti per descrivere la negatività della sua esibizione, del suo spessore artistico e della sua canzone (firmata in cinque), l’Accademia della Crusca o chi per essa dovrà introdurre per la bisogna qualche attributo innovativo e magari intitolarglielo.

Per completare il trittico arriva Junior Cally ma onestamente ci si aspettava di peggio: lui non è sgradevole e il pezzo non è del tutto da buttare, è un prodotto semplicemente paraculo e orecchiabile che sta nel posto giusto, amen.
Sono le 23.35 e manca ancora una decina di cantanti, francamente sfugge il perché di una scaletta così demenziale ma meglio non farsi altre domande condannate ad una mancata risposta; nel frattempo Rafael Gualazzi propone il suo passaggio dal finto jazz ad un finto latin che indica esigenze di monetizzare l’estate, forse l’anticipo per un mutuo, boh, comunque in bocca al lupo.
Tosca conferma in pieno quanto già detto in occasione dell’uscita del suo “Morabeza”: ha tecnica e la usa come mezzo non come fine, raffinate doti interpretive, calore, gusto, immagine elegante senza furbetterie: è la migliore cantante italiana. Menzione per il brano, splendido, per Pietro Cantarelli che lo ha scritto e per Valeriano Chiaravalle che lo ha arrangiato come si deve.

Le Vibrazioni si giocano tanto in questa occasione, l’energia c’è, il brano non del tutto ma chissà; segue Gabbani che guadagna il diritto di stare nella stessa cerchia dei tre marpioni Zarrillo, Grandi e Masini: pop italiano prodotto con onestà ed eseguito con mestiere, soprattutto non spacciandosi per nient’altro. Che dire di Rita Pavone? Grinta, energia, passione, la sua generazione era veramente fatta di un’altra materia: lei, Edoardo Vianello, Ornella Vanoni, Ranieri, i Ricchi e Poveri possono non piacere ma quanto a generosità verso il pubblico sono delle macchine da guerra.
Anastasio è tanta roba, anche se l’aspetto musicale, forse, è ancora da mettere a fuoco; nel frattempo poca cosa è quella portata da Riki, vessillifero del target ex Lorenzo Fragola, nel quadro dell’attività del tritacarne di cui sopra.
La successiva proposta è Giordana Angi, corde vocali in pericolo o forse già vittima di polipi, per un brano che non merita tutto questo rischio; la segue Paolo Jannacci, non geniale innovatore come il padre (lui sì…) ma bravo musicista e persona di spessore. Torna anche Elettra Lamborghini, tutto fuorchè conturbante come annunciato, in realtà una sorta di materna tabaccaia di felliniana memoria che propone un branetto da Costa Smeralda, e chiude Rancore con un buon pezzo in stile, suo, ed esecuzione all’altezza, penalizzato dall’ora veramente letale.

Parliamone, è quasi l’una e mezza e mentre Fiorello impazza proviamo a leccarci le ferite.
Questo carrozzone ha la sua ragione di esistere nell’inseguimento dello share, a questo proposito vogliamo dirlo che il maledetto “Mundialito” dell’81 ha fatto quasi più danno della peste? Il servizio pubblico è per definizione il servizio pubblico, purtroppo per capire questa frase e la sua premessa bisogna andare a documentarsi per quel minimo sufficiente, ma casomai nel programma dell’Università della vita non si trovasse conforto queste nostre pagine virtuali possono fornire soccorso. Basta continuare a leggere e sforzarsi di non perdere il filo logico, anche se non si tratta delle istruzioni di qualche videogioco o del cellulare.
Prima citiamo la giustificazione che impazza su tutti i media: per il ruffiano e pedestre inseguimento degli inserzionisti il Festival sarebbe costato 18 milioni ma ne avrebbe incassati chi dice 36 chi dice 54, forse un fantastilione. Irrompe la casalinga di Voghera e ci precede subito nello sbottare che allora i soldi per gli orchestrali ci sono… successivamente il pallottoliere indica che il secolare deficit della Rai è in veloce fase di ripianamento, evviva, oppure attendiamo spiegazioni, da decenni peraltro. Nel frattempo, pur con la certezza di essere tacciati di pedanteria, è d’uopo ricordare che un servizio pubblico non dovrebbe proprio avere problemi di soldi, per quale motivo ce li ha e da tempo immemorabile?
E soprattutto, una volta per tutte: il servizio pubblico ha in quanto tale una funzione di divulgazione culturale, punto, santa pazienza; un network privato con fini solo commerciali e di propaganda politica c’è già, chi preferisce questo menu cambi canale e arrivederci, si faccia pure piombare il telecomando, si sfondi di merendine di giorno, di cioccolato la sera, di prosciutto cotto in estate, ghermito rigorosamente con le mani mentre si zompetta su una spiaggia o in barca, si compri un’auto nuova ogni sei mesi e vada in qualche vacanza low cost, per poi al rientro schiattare nelle comode rate e lamentarsi della crisi.

Visto che qualsiasi opinione si esprima in questo strano paese costa l’essere tacciati di buonismo, fascismo, omofobia, sinistrismo, qualunquismo, buttiamoci nella trappola: l’ignoranza ha conquistato il potere e costituisce una maggioranza assoluta ed inattaccabile.
L’ignoranza è solo una scelta di vita, comoda e facile, perché i libri nei mercatini dell’usato costano una media di tre euro e su Internet c’è praticamente tutto quello che serve per farsi un’istruzione di base e un minimo di infarinatura culturale.
L’ignorante ha scelto di esserlo e tutto il sistema dell’informazione lo foraggia, gli liscia il pelo e lo incoraggia a proseguire, basta che consumi ovviamente.
Sulla base di questo si fonda la tv commerciale e ci sta, ma è una vergogna cosmica che il servizio pubblico segua vergognosamente a ruota e ritenga che sia il caso di prestarsi a promuovere finti cantanti stonati e negati per la musica, canzoni indegne, arrangiamenti vergognosi, esibizioni di sgradevolezza epocale, infarcendo il tutto di una roboante confezione e quel che è peggio di una untuosa patina di “artisticità”, “innovazione”, “tendenza creativa” e tante belle parole atte semplicemente ad impacchettare della pura e semplice immondizia in carta regalo.
Gentile destinatario di questa zozzeria è appunto il pubblico, il cui livello di fruizione è da villaggio turistico di quart’ordine ed è questo il vero dramma, insieme alla ignoranza o alla disonestà intellettuale di chi produce questo carrozzone o della maggioranza che ne scrive al riguardo.

Prima del Mundialito dell’81 la TV pubblica non subiva nessuna concorrenza, nessuna forsennata corsa al ribasso come quella che ha portato rovinosamente agli attuali fasti, il servizio pubblico aveva cura di bilanciare le proposte tra fruibilità e contenuti, la pubblicità non era la odierna prepotente padrona di casa ed anzi veniva proposta in modo limitato, garbato, educato e pure gradevole, ma sempre relegata all’angolo.
Gli artisti del benaltrismo hanno avuto ed hanno ancora gioco facile ad asserire che “vietato vietare” (sciagurata corsa a protezione della pagnotta) sia cosa buona e giusta, stanno ancora tutti sugli scudi a pontificare, anzi forse è proprio in virtù della loro veloce salita sul carro del vincitore che hanno ancora un pulpito. Nel paese del sole e del mare chi veramente prende posizioni scomode come minimo perde progressivamente di visibilità, ovvero la attuale moneta più pesante, per cui ognuno attacca il ciuccio dove vuole il padrone, sia pure con diverse modalità espressive.
D’altronde diceva qualcuno che il problema principale dell’italiano è che “tiene famiglia”, alla fin fine stiamo parlando di canzonette, ognuno si tiene stretto il proprio orticello e tanti saluti alla memoria di chi già cinquanta anni fa aveva avuto il coraggio di parlare chiaro riguardo al consumismo definendolo giustamente come il vero totalitarismo dei nostri tempi, e finendo peraltro qualche anno dopo malmenato e investito sul lungomare di Ostia.
Nel frattempo escono i vincitori: Diodato, Gabbani e i Pinguini Tattici Nucleari, Tosca è sesta, sono le due e mezza… buonanotte.

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