Al Jarreau, un’altra stella si è spenta. Un cantante così eclettico da spaziare dal R’n’B al Soul al Jazz al Pop, Jarreau è stato tutto questo e anche altro. Benché fosse un caso anomalo essendo più interprete che autore, è statcomunque una figura unica nel panorama della Musica e della BlackMusic.
Esordio tardivo, a 35 anni circa, per un talento che col passare degli anni ha raffinato sempre più il proprio stile, recuperando sonorità soul e contaminazioni Jazz, da Al Green a Jon Hendricks e il stile dello scat. Proverò a ricordarlo, con link diretti ai suoi brani (link su Spotify).
A 76 anni la sua ugola ha smesso di cantare per sempre, lasciando una produzione eterogenea come stile ma con uno standard qualitativo sempre eccellente, nonostante i brani e le produzioni spesso non fossero all’altezza del suo innegabile talento e ispirazione. È riuscito a scalare le classifiche R’n’B, Pop e Jazz, raccogliendo ben 7 Grammy™ per le sue interpretazioni in ben tre categorie diverse, Pop, Soul e Jazz. Oltre a svariate Nominations.
Benché ufficialmente il suo esordio sia datato 1975 con l’album We got by, per il quale già allora ricevette il riconoscimento del premio tedesco analogo ai Grammy, Echo Award, tuttavia esiste un album precedente (che io ho e adoro) in cui si cimenta con evergreen del Jazz, da “Sophisticated Lady di Duke Ellington a “My Favourite Things“.
Per lungo tempo ha cercato di occultare questa produzione, immagine del suo esordio nei locali live, finché nel 1983 fu ufficialmente pubblicata col titolo “The Masquerade is Over”. Successivamente poi nei vari concerti di festivals Jazz ha riproposto tali brani.
Gli anni ’80 furono gli anni della sua esplosione in termini artistici e di fama, con album storici come “Breaking Away “, “This Time “Jarreau” (contendente la famosissima Boogie Down) fino alla sintesi di Elettronica e Pop di “High Crime”.
Nonostante avesse già meritato un Grammy per il live “Look to the Rainbow”, i dischi che ho citato raccolgono secondo me la summa del suo talento espressivo e vocale, che poi nel corso degli anni seguenti ha affinato sempre più in produzioni molto più orientate alla fusione di Jazz e Soul. Senza dimenticare l’egregio lavoro di produzione e arrangiamento di Jay Graydon (già produttore dei Manhattan Transfer) e la fantastica compagine di musicisti coinvolti o la supervisione di Marcus Miller (Tenderness).
Sua caratteristica era un timbro baritonale che non temeva di spiccare il volo anche verso note tenorili, unito ad un fraseggio melodico e ritmico molto personale, in cui appunto le reminiscenze di Hendricks trovavano molto spazio nelle fioriture soul.
È stato un Artista da ballare e ascoltare, che poteva passare con grande scioltezza dai palchi di Umbria Jazz al palco di Sanremo (ospite dei Matia Bazar nel 2012 (Parla più piano) e addirittura a fianco di Checco Zalone nel suo personale show nel 2011. Un Artista dunque molto lontano dallo stereotipo dell’ombroso Jazzista che fa incursioni nel Pop con un animo snob.
La musica è sempre stata un elemento di vitalità, come si può vedere nel suo Cd live “Live in London” e nelle innumerevoli partecipazioni ai vari Jazz festival, dove non mancava mai di cantare sempre con un sorriso e un’espressività solare.
Lo ammetto, per me è stato una figura centrale nella mia formazione, proprio per la sua duttilità, per la leggerezza con cui accarezzava note e ritmo (bellissima la sua interpretazione di One Note Samba con un ibrido tra beat-box e scatting in un assolo ritmico vocale, album The Masquerade is Over) anche se a volte il suo gusto per la fioritura melodica, che già aveva espresso dagli inizi con una personalissima versione di un classico di Elton John (Your Song nell’album Glow) mi faceva restare un po’ perplesso. Amare un Artista non significa certo idolatrare tutto ciò che fa, lo sapete bene anche voi vero?
La notizia della sua morte mi ha colpito, forse anche perché è stato un po’ un’icona del suo tempo (e forse mio), di un modo di fare e concepire la musica e la sua produzione seguendo una filosofia musicale che ora credo non esista più, forse per lasciare organicamente spazio anche ad nuove estetiche.
I suoi album con le sue collaborazioni come Jay Graydon, Narada Michael Walden, Nile Rodgers, Marcus Miller sono stati un punto di ritrovo dei migliori musicisti disponibili, ognuno gigante nel suo strumento, offrendo sempre oltre ottima musica anche un esempio meraviglioso di come suonare.
Oltre al famosissimo progetto USA for Africa col brano “We are the World”, una delle sue più interessanti collaborazioni è stata la partecipazione (poco conosciuta) ad un progetto molto ambizioso di rilettura in chiave afroamericana della “Messa” di Haendel, “Soulful Celebration”(1992), col brano “Why do Nations so furiously rage?” con tanto di BigBand All Stars realizzata da Mervyn Warren (ex Take6) e curata dal guru Quincy Jones (col quale aveva anche collaborato nel suo disco All Stars Back on the Block, 1989)
Eppure il suo brano più struggente, quello che non ha mai scalato le classifiche ufficiali ma quello del mio animo, è quello più intimo, Not Like This (tratto da Jarreau) in cui il senso dell’abbandono è quasi profetico:
Not like this
without a single tear
We can’t just walk away
as if it never happened
Our kind of love
has never talked in whispers
So if it’s time to go,
let’s do it right and go out loud
But not like thisWithout a backward glance
Did all our feeling die
the moment love was over
Well, not in me ‘cause
I still feel you in my soul
So I will leave you
tenderly or bitterly
But not like this
E mi sembrano parole adatte ad un commiato malinconico ma vivo.
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