di Giò Alajmo
Dubito che Bob Dylan abbia ricevuto il Nobel per questa o quella canzone, ma per l’insieme dell’opera di nobilitazione letteraria del genere popolare e l’influenza culturale, artistica, sociale e politica avuta in 50 anni di attività coprendo l’intero arco della comunicazione di protesta, per i diritti civili, sociali, di denuncia civile, pacifista, il recupero delle tradizioni culturali del suo paese, l’esplorazione dei generi popolari americani, il crossover letterario e culturale dei generi e un mezzo migliaio di altre buone ragioni.
Guccini ammoniva di non aver mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni si possa far poesia e da più parti si dubita legittimamente che la canzone, in quanto tale, sia letteratura. Ma che la letteratura, la poesia e la canzone facciano parte dello stesso universo creativo e di comunicazione attraverso l’arte delle parole (la canzone in coabitazione con la prima musa, l’are del suono) è piuttosto evidente.
Bob Dylan fu oggetto di queste considerazioni in Italia all’inizio degli anni ’70 quando la casa editrice Newton Compton sottopose al suo comitato di saggi l’ipotesi di pubblicare la prima raccolta tradotta di versi di un cantante famoso. Ci fu dibattito ma alla fine fu deciso che sì – mi raccontò il critico teatrale rodigino G.A. Cibotto, che era nel gruppo – questo Bob Dylan poteva entrare nella collana tascabile di poesia, con Prévert e Allen Ginsberg.
La prefazione fu affidata a una nota americanista che conosceva Dylan e i beat e che aveva tradotto in gioventù Hemingway, Fernanda Pivano. Il libro “Blues, ballate e canzoni“, pur con qualche errore di gioventù, fu la prima finestra aperta ufficialmente sull’universo letterario della canzone rock americana, e sul mondo poetico beat raccontato ai giovani.
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