Essere outsider in una realtà che non lo permette spesso è difficile, ma il cantautore milanese Folco Orselli sa cosa si corre ad andare contro-tendenza.
In un panorama musicale che vede come unico trampolino, per chiunque voglia fare musica, quello di rivolgersi ai talent show, perdendo così il vero concetto di artista, non c’è da stupirsi che vi sia qualche mosca bianca alla ricerca della vera tradizione musicale.
Folco Orselli lo fa con l’album OUTSIDE IS MY SIDE, uscito il 4 Dicembre, che già dal titolo è specchio di una riflessione musicale assai mirata.
Nel 1995, con il duo Caligola, partecipa al Festival di Sanremo nella categoria “Giovani” ed è protagonista come band di apertura del Golden Eye Tour di Tina Turner (1996) e del Voodoo Tour di Zucchero Fornaciari (1997).
Una carriera consolidata alle spalle che lo porta a maturare oltre che un genere “impegnativo”, oggi come oggi, come quello del blues, una concezione del prodotto artistico che si discosta dalle convenzioni dettate dalla scena musicale odierna.
Se spesso e volentieri siamo di fronte ad artisti che alternano periodi musicali differenti, ricercando sound completamente diversi durante la propria carriera artistica, solo per seguire la sfera di godimento del pubblico, con Orselli siamo sì di fronte ad un musicista eclettico in grado di raggiungere corde espressive e ritmiche differenti, sempre restando però nell’aurea di un genere come quello del blues.
C’è tutto in Outside is my side, la ricerca di una tradizione ormai perduta, il vero senso di far musica e il tentativo di ripristinare un mestiere, come quello del cantautore, che sta via via indebolendosi perdendo quel necessario sentimento che legava l’artista al proprio testo.
Folco Orselli dice basta alla strumentalizzazione mediatica e alla scelta di puntare tutto sulla quantità e troppo poco sulla qualità dell’arte musicale. Perchè pensandoci su, forse, non c’è cosa più difficile e naturale che essere artisti, se tutto viene forzato l’autenticità e l’impatto emotivo non potranno che venire a mancare.


INTERVISTA
Iniziamo parlando del titolo del tuo nuovo album, “OUTSIDE IS MY SIDE”, che celebra la libertà di seguire la propria strada restando fuori dagli schemi. Oggi come oggi siamo di fronte ad un panorama musicale viziato dalla presenza di numerosi talent show che, paradossalmente, riducono il talento e limitano la creatività artistica secondo la legge del mercato. Cosa ne pensi e quanto è difficile per un genere come il blues trovare uno spiraglio?
Outside è il contrario degli inside mainstream, quelli che in questo momento si stanno mostrando nel loro apice più evidente in senso negativo, arrivando al culmine della “vuotezza”, il talent show in cui c’è chi si presenta ad un casting come se andasse a fare un casting di musica o condurre una rivista pomeridiana. Si presentano armati di pochissima esperienza, forse con un bella voce ma che non giustifica il mestiere di artista. Questo ha creato un momento in cui bisogna schierarsi. La schiuma di questa storia ormai è rivelata, i cantanti da talent show propongono dei contenuti che vanno bene per gruppi di quindicenni o poco altro, perché sono vuoti, non hanno esperienza, non sono cantautori, non scrivono fondamentalmente, non convincono e non hanno la possibilità di arrivare ad un pubblico di un certo tipo.
Un po’ ce ne si è accorti di questa cosa e la mia è una provocazione (outside is my side), in quanto vi sono molti “non votanti” (dato che molta gente non partecipa più alla questione artistica, dato che non si sente riconosciuta da nulla). Però se siamo in tanti si potrebbe fare massa critica a questa tendenza proposta dai “non-produttori”, che non esistono più dato il fallimento della discografia . E’ il momento di darci una svegliata. Invito tutti a fare outsiding.
L’album nasce da una collaborazione con Gino & Michele. Come è stato lavorare con loro e su cosa hai preferito puntare durante la realizzazione dei brani?
Con Gino e Michele è nata un’affinità elettiva in questi anni. La musica d’autore ha sempre avuto un ruolo nella scuola milanese, con il cabaret, con la satira, con l’ironia. Loro sono dei vati in questo senso e ci siamo conosciuti grazie ad amici comuni, poi loro mi hanno chiesto di fare le musiche di uno spettacolo che stiamo portando in giro adesso e che si chiama “Passati col rosso” che racconta i loro 40 anni di carriera, e da li è nata una collaborazione per cui poi ad un certo punto io stavo realizzando il mio quinto disco e gliene ho parlato e chiesto se avessero intenzione di collaborare.
La realizzazione di questo album è vicina al titolo, nel senso che dovevo essere più sincero possibile in questo disco (nei miei dischi precedenti ho usato il teatro, la forma-canzone anche mascherata); mi sono voluto togliere tutte le maschere e scrivere in modo realista, personale. Vi sono anche però pezzi, come Il Lupo, meno realisti ma pur sempre legati ad accadimenti reali.
E’ un disco dark, vi sono degli anfratti che richiamano queste atmosfere, né tristi né malinconiche ma che ne evidenziano questo tratto “oscuro”.
E’ nota la tua gavetta di artista, un esempio il duo Caligola di cui facevi parte, partecipando a Sanremo negli anni ’90 e poi come gruppo di apertura di tour di star della musica nostrana ed internazionale, come Zucchero e Tina Turner. Chi sono i tuoi modelli e quanto ti hanno aiutato nella tua crescita di artista?
Ho avuto tanti modelli, perché il mio ascolto è molto confuso, molto vario. Ci sono stati dei grandi amori che poi sono passati e finiti e hanno lasciato dei bellissimi ricordi. Uno tra questi Tom Waits, di cui ho studiato la sua opera, il suo modo di scrivere quando ero ventiquattrenne.
Già venivo da una predisposizione perché ho sempre amato il blues, anche i padri di Waits, Dr. John, Howlin’ Wolf, Louis Armstrong. Per quanto riguarda la musica italiana sono cresciuto con i cantautori, De Andrè, De Gregori, Dalla, poi tutta la musica della West Coast, da Neil Young a Crosby Stills & Nash, Bob Dylan. La musica come diceva Miles Davis è divisa in due categorie: quella buona e quella cattiva; io le ho ascoltate tutte e due e devo dire che mi sono lasciato influenzare da quella buona.
Nel corso dell’edizione di Musicultura 2008, sei stato decretato Vincitore del Premio della Critica, Vincitore del Miglior Testo e Vincitore Assoluto votato dal pubblico con il brano “L’amore ci sorprende”. Sei stato l’unico nella storia di Musicultura a vincere tre differenti e importanti premi contemporaneamente nel corso della stessa edizione. Come ci si sente ad avere questo primato?
E’ stato sorprendente anche per me, lo ricordo con grande piacere. Un momento molto bello; mi ricordo che il primo premio che vinsi era per il testo, il giorno dopo (dato che l’evento si sviluppava in varie giornate) ottenni il premio della critica e poi feci un’esibizione e arrivò un altro che mi disse “guarda hai vinto” e io “lo so il premio per il testo e per la critica..” e lui “no no hai vinto anche quello generale” e io non ci credevo anche perché con tre targhe e non avendo la macchina non sapevo come portarle e dove metterle. Un premio molto importante, un’iniziativa molto interessante fatta molto onestamente e che tutti gli anni incorona artisti importanti.
Da sempre nella tua musica è presente una celebrazione delle tue origini milanesi e della tradizione musicale del capoluogo lombardo; il brano QUELLO CHE CANTA ONLIÙ presente nell’album in uscita oggi 4 Dicembre ne è un esempio. Racconta del tuo rapporto con la città meneghina e, soprattutto, della tua, per così dire, “venerazione” per Enzo Jannacci.
In senso buonissimo direi “venerazione”, perché Jannacci essendo un taumaturgo, uno stregone, non era solo un artista e con le parole riusciva sempre ad affrontare delle questioni cangianti. Lui scriveva una cosa e dietro essa ce ne erano altre due a seconda di chi leggeva e di come voleva interpretare il testo. E’ materiale che scotta quello che ci ha regalato Enzo Jannacci.
Di questo pezzo in particolare, Quello che canta Onliù, che io sentivo, perché sono legato a Jannacci dall’infanzia dato che mio padre mi faceva ascoltare i suoi brani in macchina durante le gite domenicali, io ancora non ho capito di cosa parli ed è proprio questo che mi piace; ho dato delle mie interpretazioni ma il vero significato non lo capisco e rimane un mistero, tanto che da piccolo mi scavava profondamente delle stanza emotive vuote, che era impossibile riempire data la complessità della materia a quell’età. L’ho riempite in seguito, perché Jannacci ha fatto così, ha creato delle zone che io potevo riempire e in cui inserire le mie esperienze. Questa è stata la magia, la stregoneria che mi ha piazzato addosso Jannacci.
I brani presenti in Outside is my side raccontano di esperienze di vita, passioni, delusioni e rinascita.
Perché oggi come oggi la grande musica d’autore, che tu riproponi con questo album, non viene colta, perché forse si pensa sia materia impegnativa e viene quasi screditata? Cosa manca alla musica nostrana?
Io conosco tanta gente che è appassionata di musica d’autore ed è alla costante ricerca di cose; conosco artisti validissimi, miei colleghi che attuano una divulgazione sincera e valorosa del mestiere del cantautore.
I tempi hanno portato, attraverso l’iper sfruttamento dei social network, ad una realizzazione del desiderio di curiosità. Io davanti a Facebook inconsciamente per 30, 40 minuti di ricerca appago il mio desiderio inconscio e non ho bisogno di ricercare altre cose.
Il “rincoglionimento” mediatico in atto sta dando i sui frutti, perché se cominciamo ad abituarci a questi artisti che non hanno nulla da dire ciò porta al non essere abituati ad ascoltare qualcosa di più impegnativo di una storia d’amore adolescenziale. Credo comunque in un neo-umanesimo che deve rinascere perché il potere delle arti, in generale, fatte con trasporto e con amore da parte degli artisti ha un potere penetrativo superiore rispetto a quello delle “saponette”. Sono fiducioso che questi siano momenti storici in cui si sta toccando solo un momento basso della musica d’autore, sdoganata dal mainstream. Teniamo duro ed è il momento in cui le battaglie vanno affermate, io dico Outside is my side proprio perchè voglio far capire che fuori da questa storia c’è qualcosa di molto più buono per la mente.
Dal punto di vista sonoro, come ben hai espresso, Vecchi vestiti nuovi si discosta dal resto dei brani presenti nell’album. Che legame hai con questa canzone e perché hai deciso di darle un tocco più melodico?
Sinceramente ho avuto delle esperienze negli anni passati insieme ad altri amici cantautori, Stefano Piro o Claudio Domestico. Abbiamo fatto una band in inglese, ci chiamavamo gli Harmon Stage, abbiamo fatto due dischi; questa esperienza mi ha portato a sperimentare altri linguaggi rispetto a quello che utilizzo di solito. Per noi che utilizziamo il blues è una sfida cercare di spostarsi anche sulla melodia, è un terreno minato; nel momento in cui non lo fai con la giusta consapevolezza diventa subito, perlomeno alle mie orecchie, banale.
I prodromi di questa “ricerca melodica” sono proprio in questa canzone e mi piacerebbe provare a spingermi in futuro in questi territori. E’ un pezzo amaro a cui sono affezionato con un ritornello in inglese abituato un po a quel sound che avevo precedentemente.
Il blues da sempre è un genere che affascina e, penso volutamente, lo riproponi in una chiave più “moderna” con un’impostazione vocale che pesa le parole, cosa che rende assai più interessante la tua produzione. Come mai la scelta di fare un album, che non definirei “blues” in senso stretto, ma più un amalgama di diversi generi, per cosi dire, non di tendenza?
Per me il blues non significa le dodici battute del giro di blues. Il blues è un’attitudine allo swing del concetto di composizione che non si ferma al blues classico inteso come Mississipi, Chicago che è una struttura che sebben possa cambiare è limitata. E’ un’attitudine che può essere applicata al progressive, al jazz che è pura derivazione del blues, è un certo modo di stare sul tempo, di raccontare dal punto di vista terzo la scena che uno sta descrivendo. E’ un mio modo di interpretare questa cosa, mi è sempre piaciuta applicarla a dei generi diversi, in questo caso parecchi, dal rock al prog o addirittura al soul; mi è piaciuto applicarla a canoni diversi perchè il risultante è sempre qualcosa di piacevole. Il blues nei miei piatti è come se fosse l’olio, la portata può essere qualsiasi cosa ma quello non deve mancare.
Che consiglio pratico daresti alle nuove generazioni musicali a cui, forse, mancano delle vere e proprie icone e che vengono indirizzate verso schemi ben precisi come la televisione?
Innanzitutto di spegnere la televisione, perché non produce in questa fase musicale qualcosa di buono. E’ la produzione economica di un mondo marcio che è quello della produzione discografica. La povera gente che vedo andare ai casting credo faccia male e dia il cattivo esempio ai giovani. Quello non è minimamente un modello, anzi le battaglie più difficili stanno fuori da questo mondo, e sono battaglie ben più valorose. La gavetta è qualcosa di imprescindibile perché dal momento che sali su un palco hai bisogno di avere una forza dentro te stesso che abbracci degli argomenti vari, non soltanto il tuo canto; devi avere la possibilità di arrivare a tante sfere emotive affrontando te stesso, un po orientale come concetto. L’unico che può insegnarti a capire quali sono le dosi di coraggio da mettere nelle sfaccettature delle cose sei tu; quindi se non fai un lavoro su te stesso e salti a piè pari queste cose diventerai un sacco vuoto, magari con un bella voce, poi magari subentrerà la depressione perché alla fine “uno su mille ce la fa”.
Nell’altro modo invece ce la farai lo stesso, perché anche se non sarà il successo che noi tutti conosciamo, raggiungerai la felicità, essere soddisfatti di se stessi e non c’è cosa migliore. Cercate all’interno di voi, non abbiate paura delle delusioni e di scoprire voi stessi.
Oggi come oggi, se dovessi scegliere nel panorama musicale italiano odierno, con chi ti piacerebbe collaborare?
Mi piacerebbe collaborare con tante persone, come già in passato ho fatto, colleghi che stimo. Abbiamo fatto un progetto io, Carlo Fava e Claudio Sanfilippo che si chiamava Scuola Milanese, un lavoro che abbiamo fatto per due anni alla Salumeria della musica.
Ho lavorato col mio amico Federico Sirianni che è un altro cantautore che vive tra Torino e Genova. Io se avessi voglia di lavorare con qualcuno, e questo me lo ha insegnato la mia esperienza, prendo il telefono e lo chiamo. Perchè non provare? Per esempio nel disco scorso ho provato a contattare Mina per una collaborazione, ci siamo sentiti e alla fine la sua casa discografica non le ha permesso di fare questa cosa, anche se ho aperto una relazione con una persona importante. Lo faccio con tutti coloro che stimo, Flavio Pirini, Gianni Resta. Mi piace il sottobosco, chissà che magari dal sottobosco riparti la nuova forestazione, lo spero.
Si ringrazia Parole & Dintorni per aver reso possibile l’intervista
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